Francesca Catastini – “Petrus”

Petrus © Francesca Catastini
di Chiara Ruberti
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Petrus è un lavoro che nasce dall’occasione di accedere all casa del tuo vicino, esplorando il suo spazio intimo in libertà. Ci sono un oggetto, una sensazione, una suggestione in particolare che sono stati decisivi per lo sviluppo del progetto?

Quando ho messo piede nella sua casa a colpirmi sono stati gli oggetti, fin da subito. Anche il fatto di poter toccare e fare un’esperienza così diretta della dimensione privata di un’altra persona ha avuto in me una gran risonanza. Tutto il lavoro prende forma dall’incontro con le cose di Albrecht. La volontà di riflettere su una certa idea di mascolinità nasce dal fatto che Albrecht è un uomo, e ciò che possiede lo rende in qualche modo evidente. Quello che vedevo mi era familiare; soprattutto gli oggetti della sua infanzia mi ricordavano la mia, anche se le sue cose di bambino assomigliano di più a quelle di mio fratello. Mi piace molto giocare e sicuramente questa sorta di tuffo nel passato è stato anche un invito al divertimento. Chissà a che età si inizia a fare una distinzione netta tra maschio e femmina, complici forse certi giocattoli… La collezione di gomme a forma di boccali di birra di Albrecht però è quasi uguale a quella che avevo anch’io. E qui si potrebbe aprire una parentesi sulla cultura e l’immagine degli alcolici negli anni Ottanta… Uno dei primi oggetti che ho trovato a casa sua e che mi ha affascinato è una vecchia bottiglia di un amaro chiamato Petrus, che apparteneva a suo nonno, quella del “Caro Petrus, ti ho dato il nome di un liquore dalla bottiglia scura e il tappo rosso” di cui parlo nella mia lettera alla fine del libro.


Poi ci sono le vecchie fotografie nel cassettone della camera da letto. Ho passato diverso tempo a guardarle. A colpirmi erano in particolare certe bocche in bianco e nero, così carnose e morbide, bocche soprattutto di uomini. Credo di averle associate istintivamente ai tanti sigari che avevo trovato. In tre occasioni ho chiesto ad Albrecht di raccontarmi chi fossero le persone ritratte, ma non lo sapeva con certezza. Forse nelle fotografie che conserviamo, col tempo, le identità sfuggono, certi volti non hanno più lo stesso significato.
A mano a mano che scoprivo il contenuto della sua casa mi sembrava di scorgere Albrecht bambino, Albrecht adolescente, lo studente, l’amante del tabacco, l’ingegnere, il marito. Albrecht in giacca. Percepivo la costruzione di una forma. E, abbracciata a questa, una perdita intima, la ferita di appartenere a una società. Ecco, Petrus è accompagnato da questo senso di sacrificio e separazione, come un rumore bianco, è il sottofondo di tutto il lavoro, quello che alla fine non si sente, perché l’abitudine lo taglia via.
Penso che Albrecht sia stato molto generoso a lasciarmi le sue chiavi. Forse abbiamo giocato a nascondino insieme, a distanza.

Per chi conosce il tuo lavoro, e in particolare The Modern Spirit Is Vivisective, non è difficile riconoscere qui alcuni aspetti fondanti della tua ricerca. Primo fra tutti, quell’attenzione allo spazio vuoto tra le immagini, dove, attraverso sottili analogie e discrepanze, si costruisce la narrazione dell’intero libro.

Per me è un po’ come se tutto tendesse al bianco. La pagina vuota è immagine, ma è anche un respiro. Si crea una distanza che è uno spazio di relazione ed è proprio lì che si apre il dialogo, da lì parte la ricerca di un punto di contatto. Mi ha colpito molto l’incipit di una frase di Veit Stratmann, autore di una piccola quanto preziosa nota in fondo al libro, “Distance becomes matter”, la distanza si fa materia. Il mio intento è cercare di rendere sempre più sottile la base di certezze su cui si poggia il nostro modo di interpretare le immagini. I filtri attraverso i quali guardiamo il mondo ci precludono sempre altre possibilità. Ci sono tanti modi di essere ingenui, farsi guidare sempre dalle stesse convinzioni non è quello più divertente. È nell’incertezza, quando i significati si fanno più labili, mobili, di burro, che scopriamo di più.

Grazie alla sua narrazione non lineare, Petrus non dà risposte definitive, ma piuttosto interroga l’esperienza, lo sguardo, il pensiero di chi lo guarda. A mio avviso questa è una qualità preziosa, ma qualcuno può anche esserne disorientato. Vuoi dare qualche indicazione che può essere utile per comprendere meglio il contenuto e l’intento della tua ricerca?

Lasciare spazio all’immaginazione e a varie possibilità di lettura è importante per me, il mio punto di vista ha lo stesso peso di quello di chi guarda, siamo entrambi portatori di significato, assieme alle immagini stesse. Magari può sembrare un gesto un po’ facile, o perfino poco generoso… Petrus riflette sul bisogno di individuare una forma per ogni cosa, una forma che ci appare innata e definita. “L’io [però] è un po’ come la superficie del Sole”, come ho letto di recente; da lontano ci appare stabile e uniforme, ma se ci avviciniamo assistiamo a un susseguirsi di micro-esplosioni incessanti, piccoli zampilli incandescenti che cadono e si spostano, dando continuità a una superficie mai uguale.
Il lavoro è nato a casa di Albrecht, per poi proseguire all’esterno, in una ricerca quasi ossessiva di forme. Troviamo la scultura, in particolare quella classica, di divinità antropomorfe, i paesaggi, la natura antropizzata delle cave di marmo, e le rocce, e le rocce ancora. Ma soprattutto l’uomo, attraverso quello che fa, non tanto per ciò che è.


Vorrei fare un breve accenno anche alla sequenza che per me ha la stessa importanza delle immagini. Credo che le prime venti pagine o poco più possano sembrare più chiare rispetto alle altre, tanto da sviare quasi chi guarda. Cristina De Middel, ad esempio, mi ha detto che all’inizio era convinta che si trattasse di una storia su mio nonno. Dopo quelle prime venti pagine subentrano altri elementi, che in qualche modo mettono in discussione ciò che li precede. E poi ci sono le ultime venti pagine, quasi slegate tra loro: una mano, una parete di marmo, una cartolina, una superficie gialla, una camera da letto, un volto senza occhi né bocca, due pagine bianche, un’altra mano. Questo è un po’ il mio modo di rappresentare l’impossibilità di racchiudere un processo, in continuo divenire, in una forma stabile. Come quella mano che non afferra nulla a pagina 45.

 

Il libro:
Francesca Catastini
Petrus
Kehrer Verlag, 2019

Fotografie: © Francesca Catastini

 

26 novembre 2019

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