L’identità oltre i confini del corpo

di Emanuela Bagoi
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Se la filosofia, per decenni, ha dato poca rilevanza al tema del corpo, nella società contemporanea la discussione è centrale quanto il pensiero: il corpo è il confine che determina l’individuo, che lo caratterizza nella sua singolarità rispetto al resto delle cose. Ma è possibile oltrepassare il limite disegnato del corpo umano alla ricerca della propria identità?
Grazie alla medicina e alla tecnologia siamo in grado di modificarlo e anche di superarne i bordi, ma non è solo questione di scienza. L’arte ha sempre superato il limite del logico e del concreto, contribuendo di fatto a razionalizzare il corpo e la corporeità. Sembra una questione semplice, ma non lo è.

Ci sono artisti come Mari Katayama che ridisegnano i confini utilizzando nuovi codici estetici e narrativi che si distanziano dallo sguardo dominante – che vuole le donne belle, abili, desiderabili e in condizione di dipendenza dal proprio aspetto.
Classe 1987, nata con una mano articolata con due sole dita e due gambe che ha scelto di amputare all’altezza delle tibie a causa di una rara malattia, l’artista giapponese utilizza il proprio corpo come espressione artistica, come ricerca e riappropriazione di sé; seduce, affascina e provoca trasformandosi in un’opera d’arte.
Attraverso la fotografia e la scultura, Mari Katayama supera quel confine fra umano e post-umano, ovvero il limite fra il corpo che ci appartiene e ciò che si innesta all’esterno di esso. Il corpo come campo di sperimentazione.

Nel progetto On The Way Home trasforma le protesi – che utilizza per camminare – in accessori intriganti e sensuali, e il suo guardaroba in arte da indossare. Usa scampoli di tessuto e cultura per cucire a mano tutte le braccia e le gambe di cui ha bisogno per s-muovere lo sguardo di chi la osserva. Si ritrae sopra, sotto, accanto alla riproduzione scultorea dei suoi arti; si sottrae e si concede all’occhio dello spettatore con tutta la forza della vulnerabilità che, attraverso l’arte, trasforma in realtà, sogni e desideri. Dà vita così a un mondo unico e onirico, dove la disabilità diventa quasi un supporto all’immaginazione di chi la guarda e le regole “normali” sono esposte per essere sfidate e ridefinite.

Se il corpo non conforme viene generalmente nascosto, Mari Katayama si prende tutto lo spazio necessario per affermarne l’identità e la presenza. Si mostra senza paura, con tutta la sua poetica e sensibilità, estetizzando la propria disabilità attraverso l’arte.

In una società in cui il culto della perfezione è ancora molto presente, l’artista giapponese sottolinea l’importanza della diversità come vera portatrice di bellezza.

Tiziano Scarpa descrive il corpo come “il più inesplorato degli universi portatili”, e ha ragione. L’identità, compresa quella corporea, viene costruita come in un gioco di specchi in cui gli sguardi sono sostanzialmente due, il nostro e quello degli altri. Mari Katayama usa come specchio anche la macchina fotografica, con la quale crea tante versioni di se stessa legate in un’identità unica e sapiente. Supera il confine del proprio corpo anche grazie all’affermazione di esso, e lo dice chiaramente: “non potete separare il mio corpo dalla mia arte”.

 

Tutte le immagini: On The Way Home, 2016, c-print ©︎ Mari Katayama

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