Jeff Bridges dietro l’obiettivo. Panoramiche dal set

George Clooney, "The Men Who Stare at Goats" (L'uomo che fissa le capre", 2009. Dalla serie: Tragedia/Comedia
di Claudia Stritof
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“Nel 1956 Robert Frank ha fotografato la “H” dell’insegna di Hollywood […] dal retro, rivelando la struttura che sostiene la lettera e il deterioramento dell’icona” volendo alludere metaforicamente all’incrinarsi del sistema degli Studios.

Così scrive Kerry Brougher nel libro Jeff Bridges. Pictures: Volume Two (PowerHouse Books, 2019), tracciando un interessante parallelo con il lavoro fotografico di Jeff Bridges, attore versatile, premio Oscar come miglior attore per Crazy Heart e, per chi non lo sapesse, anche un affermato fotografo.

Al contrario di quanto notava Robert Frank, Jeff Bridges – proveniente da una famiglia ben radicata nell’industria cinematografica – non coglie un mondo in disfacimento, ma fotografa l’ambiente in cui è cresciuto e in quanto tale gli rende omaggio attraverso una fotografia familiare e partecipata.

Nelle sue immagini, a emergere è lo spirito collaborativo che lega il cast durante le riprese, la routine quotidiana sul set e gli intensi rapporti amicali e familiari intessuti dall’attore durante la sua vita. Infatti, dal 1984, Jeff Bridges ha documentato il making of della maggior parte dei film in cui ha recitato, tra cui il meraviglioso The Fisher King, diretto dal regista Terry Gilliam e interpretato da Bridges e da uno strepitoso Robin Williams nei panni di Parry, oppure Il grande Lebowski, pellicola diretta dai fratelli Coen e selezionata per la sua preservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti, in quanto film “culturalmente, storicamente o esteticamente significativo”.

Julianne Moore, The Bowling Pin Chorines, “The Big Lebowski” (Il grande Lebowski), 1998.

In una breve intervista è l’attore a raccontarmi quando nasce il suo amore verso la fotografia: 

“Tutto è cominciato al liceo, quando prendevo in prestito la Nikon di mio padre per scattare fotografie e avevo allestito una camera oscura nel mio bagno. Avevo messo della carta stagnola sulle finestre per fare in modo che fosse tutto buio, e adagiato dei vassoi sopra la vasca. Lo spazio era molto limitato, con il mio ingranditore e tutto il resto, ma mi piaceva stare lì dentro con la luce rossa, ascoltare musica e vedere l’immagine che si rivelava durante lo sviluppo, magicamente… Mi piaceva molto.

Poi mi sono appassionato alla Widelux quando Mark Hanauer, un fotografo, ha scattato alcune foto al nostro matrimonio [l’attore è sposato con Susan Geston, N.d.R.]. Il nostro è stato un matrimonio folle, improvviso, con molti amici e familiari e lui ha scattato alcune fotografie con la Widelux che mi sono piaciute molto.

Ricordo di aver visto questa macchina fotografica al liceo. Si diceva in giro che un ragazzo sarebbe venuto a farci una foto di classe e se correvi velocemente potevi apparire nella foto due volte, perché aveva una lente panoramica. Nessuno ci credeva, ma si è rivelato vero. Questo è ciò che ha dato inizio al mio amore per la macchina fotografica Widelux. E mia moglie, Sue, mi ha regalato, come dono di nozze, proprio una Widelux. Questa è praticamente l’unica macchina fotografica che uso ora, oltre all’iPhone per gli scatti casuali”.

Jodelle Ferland, “Tideland” (Il mondo capovolto), 2005. Dalla serie: Tragedia/Comedia.

Le caratteristiche tecniche della Widelux rendono questa macchina importante per la poetica di Bridges, perché il suo formato panoramico permette di narrare contemporaneamente più storie. È l’attore a raccontarmi che “un altro motivo per cui mi piace la Widelux – soprattutto per fotografare il dietro le quinte dei film – è perché ha un formato simile a quello dei film in 70mm. Per questo la definisco anche il punto d’incontro tra la fotografia di scena e la fotografia cinematografica, per via del suo obiettivo panning e del fatto che si possono ottenere due espressioni completamente diverse su un solo negativo. Le fotografie della serie Tragedia/Comedia sono un buon esempio di questo aspetto”.

Quest’ultima serie prende ispirazione dalla tradizione teatrale greca, quando gli attori erano soliti indossare maschere di vivace naturalismo per esprimere i sentimenti provati dal personaggio. In questa serie Bridges reinterpreta la funzione delle antiche maschere realizzando ritratti dei propri amici, nonché celebri attori hollywoodiani, celebrando al contempo la storia della tradizione teatrale e sottolineando metaforicamente i poli emotivi che dominano la vita di tutti gli uomini: la sofferenza e la gioia di vivere.

Nel libro Il Drugo e il Maestro Zen, Jeff Bridges afferma: “sono arrivato alla conclusione che la felicità è proprio qui, a disposizione sotto i miei piedi. Robert Johnson ha scritto che la parola ‘felicità’ (happiness) viene da ‘accadere’ (to happen). La nostra felicità è quel che accade”.  Non è un caso che durante la nostra intervista Jeff Bridges citi come fonte di ispirazione il lavoro di Jacques-Henri Lartigue, fotografo che fin dai suoi precoci esordi è andato alla ricerca dei momenti felici e delle piccole gioie che la vita regala.

Robin Williams, “The Fisher King” (La leggenda del re pescatore), 1991.

Osservando attentamente le fotografie di Bridges si nota come la sua sia una visione nitida, mai stereotipata e sempre partecipata di un mondo in continua evoluzione; ma, se da un lato il suo archivio permette di ripercorrere quella che a tutti gli effetti è la storia del cinema, dall’altro – alla mia domanda su cosa significhi per lui fotografare – l’attore risponde:

Cosa significa per me? Beh… Semplicemente, l’idea di una fotografia che cattura le ombre e la luce è una cosa straordinaria. Sono un fan di Jacques-Henri Lartigue, che ha iniziato a fotografare da ragazzo, all’inizio del XX secolo. Credo che avesse anche una macchina fotografica panoramica e sembra che alcune delle sue fotografie siano state scattate con una di queste macchine. Ma i suoi scatti sembrano quasi delle istantanee. Altre foto di quella stessa epoca erano statiche, mentre quelle di Lartigue mostrano davvero la vita. Quindi questo è quello che cerco di fare con la mia fotografia: mostrare com’è la vita alla fine del XX secolo e all’inizio del XXI… fare film e catturare quella luce. Tutto cambia rapidamente in questo senso. Non fanno più macchine fotografiche a pellicola. Ora è tutto digitale.

Un approccio meno egoista è riuscire a fotografare raccontando quel che è stato il film dal punto di vista degli addetti ai lavori. Ma per me personalmente, quando guardo le fotografie e poi realizzo libri per il cast e la troupe… è come essere trasportati indietro nel tempo. Riesco davvero a ricordare tutti quei momenti e quelle esperienze meravigliose. Quindi per me è come un filmato amatoriale, una versione fissa dei filmini di famiglia.”

“Scenes of the crime” (Scene da un crimine), 2001.

Bridges cattura quelli che sono momenti della propria vita, attimi irripetibili e unici, che attraverso la fotografia entrano a far parte del proprio album dei ricordi, linfa vitale che alimenta l’arte e la creatività, così come avviene nei suoi disegni e nella sua musica.

Alla mia curiosità su come comunichino queste diverse anime artistiche, Bridges risponde: “Beh…io fotografo soprattutto con la Widelux, che non ha un mirino Through the lens [TTL, che permette di inquadrare la scena da fotografare direttamente attraverso l’obiettivo N.d.R.], ma ha un mirino da cui non puoi sapere esattamente quello che otterrai. Quindi c’è una sorta di capricciosità, di imprevedibiltà nel lavorare con la Widelux. Quella dose di imprevedibilità che in una buona giornata, mi piacerebbe avere, sia nella recitazione che nella musica. Quando ti rilassi e non prendi le cose troppo sul serio, si scopre che il lavoro migliore tende ad arrivare attraverso di te”.

Una frase che denota l’importanza che il “capriccio” ha per l’attore in quanto sinonimo di libertà creativa, che altro non è che la manifestazione della propria filosofia di vita.

Ciò che conta è la meravigliosa scoperta dell’attimo e più di ogni altra cosa, sapere di aver vissuto quel determinato momento, perché consapevole che tutto ciò che serve per essere felici è già intorno a sé: la propria famiglia, le proprie passioni e i propri amici.

Le sue fotografie sono il frutto di quegli attimi, un’autobiografia visiva di cui Jeff Bridges ci rende partecipi: momenti ironici, divertiti, a tratti riflessivi e talvolta malinconici.

Stephen Bruton, “Crazy Heart”, 2009.
Fotografie: © Jeff Bridges

Il lavoro fotografico di Jeff Bridges è visibile sul suo sito web.

 

10 novembre 2020

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