di Beatrice Bruni
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You can’t picture love that you took from me,
When we were young and the world was free.
Pictures of things as they used to be…
People take pictures of each other,
Just to prove that they really existed,
Just to prove that they really existed.
(The Kinks, da People take pictures of each other)
Quanto è cambiata la nostra percezione della parola anglosassone “stories” nel corso di questi ultimi anni. È quasi immediato oggi pensare alle Stories di Instagram, ai social media, alla contemporaneità rapida ed irruente del nuovo, e non più così nuovo, mondo della fotografia.
Ma qui ci riferiamo a qualcosa di molto più affascinante, a delle storie conturbanti, regalateci da un grande affabulatore, un incantatore della pellicola cinematografica. È Wim Wenders l’autore del libro Polaroid stories edito da Jaca Books, pubblicato circa tre anni fa. È Wim Wenders, acclamato regista, esponente del Nuovo Cinema Tedesco, e anche fotografo di fama internazionale, autore di esposizioni fotografiche in tutto il mondo. È quel Wim Wenders che oggi firma anche una importante cocuratela, che guarda al surrealismo e al gioco del cadavre exquis – elemento narrativo caro alla redazione di questo magazine – della mostra attualmente in corso a Venezia a Palazzo Grassi sulla fotografia di Henri Cartier-Bresson. Ci occupiamo dunque del Wim Wenders fotografo, con lo sguardo focalizzato sulla sua immensa produzione di Polaroid.
Wenders ama raccontare le storie, ama i luoghi, gli spazi. Tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, il regista impara l’arte cinematografica e trova nella Polaroid un perfetto elemento complementare alla sua ricerca. Questo oggetto istantaneo è l’eccellente ausilio per il girovago storyteller, che accumula appunti visivi, necessita di materiale rapido, fotocamere poco costose e affascinanti, che producono immagini da studiare, da rileggere, su cui riflettere, con cui giocare. Wenders scrive nell’introduzione al libro che usare le Polaroid non gli è mai sembrato un vero atto fotografico, e che associa quella pratica ad un qualcosa di molto divertente, giocoso appunto, e spesso legato al caso, anche alla sorpresa, alla suspense, al “tempo di un battito del cuore: come sarebbe stata l’immagine?”
Non può mancare l’elogio alla SX-70, fotocamera mitica per gli amanti della Polaroid, dal design assolutamente accattivante e impossibile da non desiderare. Anche Wim ne subisce un forte fascino: qualunque cosa inquadravi la inquadravi al centro dell’immagine. Ogni fotocamera produce la propria estetica. Il risultato era un oggetto che tenevi nella mano ed era un esemplare assolutamente unico, senza un negativo da cui riprodurre delle copie, in tedesco un “Unikat”, una piccola immagine quadrata nella sua cornice bianca. Per queste specifiche caratteristiche la Polaroid era un vero e proprio oggetto d’arte, originale ed unico, oggetto di fascinazione. Ma, di fronte a questo pur potente legame tra l’autore e la fotografia, egli stesso si pone la domanda: “Perché farne una mostra o un libro? Non si tratta solo dei miei ricordi? A chi altri può interessare?”. Tutto questo materiale “non rivela forse che la mia vita si è incentrata soprattutto sui film che ho girato, e che questi film hanno strutturato la mia esistenza, tanto che non riesco più a distinguere tra le due cose?”
L’artista si pone la domanda più classica: mentre imparava il suo mestiere, contemporaneamente forse stava imparando come vivere la sua stessa vita?
Per Wenders ha sempre contato molto dividere il personale dal privato, due ambiti spesso confusi, solcati da un limite sottile. Ne esce con una riflessione estremamente convincente e di pura saggezza: contano veramente le storie personali, imbevute di vera vita, perché riguardano anche gli altri, mentre le storie private sono inutili e non servono a nessuno.
Dunque il libro si dipana in ampi capitoli, che come in una macchina del tempo, ci portano in viaggio con Wenders, con i testi e le immagini: in essi viviamo in un lungo e ricchissimo percorso i suoi incontri, le sue ossessioni, i luoghi, i personaggi dei film, le amicizie, il fondamentale incontro con New York e con gli Stati Uniti – le zuppe Campbell fotografate in un supermercato come tributo ad Andy Warhol – , l’America che affascina e l’America che delude, i ritorni in Europa, le preparazioni di film, l’incontro con Annie Leibovitz, il cielo di Los Angeles, la sua Germania, le ricognizioni per film diventati di culto, come Alice nelle città, Falso movimento, Nel corso del tempo, L’amico americano, i tributi, l’amore per Cookie Monster di Sesame Street, Tom Ripley, Bruno Ganz, i cieli e le nuvole. Chissà se l’osservazione e gli scatti reiterati e accumulati di questi cieli hanno portato l’autore alle riflessioni per uno dei suoi più celebri capolavori, autentica poesia visiva, Il cielo sopra Berlino, un po’ successivo agli anni che questo libro racconta (1987). Non lo sappiamo, ma ne siamo quasi certi.
Il libro:
Wim Wenders,
Polaroid stories
Jaca Book, 2017
Fotografie: © Wim Wenders/ Verlag der Autoren, Frankfurt am Main
10 novembre 2020