Filippo Romanelli – “Just Another gender theory”. Sulla fluidità di genere

di Daniela Tartaglia
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Perché ancora bramiamo sfumature,
sfumatura soltanto, non colore!
Oh! lo sfumato soltanto accompagna
il sogno al sogno e il corno al flauto!

Paul Verlaine, Arte poetica, 1874

 

Attorno al tavolo della mia cucina, in un pomeriggio autunnale di qualche anno fa, mia figlia e le sue giovani amiche sfogliano insieme, discutendo animatamente, le pagine di un libro. È un momento gioioso scandito dal fervore e dalla vitalità che emana dai loro corpi. Sono dentro quel libro, dentro la visione di un’altra persona, totalmente immerse in un altro mondo.

Stanno sfogliando Just Another Gender Theory, il prototipo del progetto che Filippo Romanelli, studente del corso triennale di fotografia alla Fondazione Studio Marangoni, mi ha regalato al termine del suo ciclo di studi.

Un esempio virtuoso di narrazione per immagini che avevo mostrato a mia figlia, allora studentessa liceale alle prese con le prime nozioni fotografiche, nella speranza che arrivasse a considerare la fotografia qualcosa di più che un semplice strumento per comunicare sui social. Ricordo che, di fronte a tanto entusiasmo e condivisione da parte di giovani adolescenti, realizzai immediatamente che quel lavoro avrebbe avuto un futuro, una lunga vita. Ne ero già pienamente convinta, però quell’episodio rafforzò la mia opinione non solo sul valore artistico del progetto ma anche sulla sua efficacia narrativa. Era sostanzialmente grazie alla forza della comunicazione e all’equilibrio della sequenza se alcune fanciulle, all’oscuro delle problematiche del linguaggio fotografico, erano riuscite a entrare nelle pieghe di un racconto complesso, a intuire che la fotografia può funzionare come sguardo indagatore, come strumento che non trasmette verità ma rivela la via per giungervi (S.Sontag), come enigma su cui interrogarsi per diventare più consapevoli.

Genesi, 2: 21, 22

È un progetto vasto e articolato quello sviluppato da Filippo Romanelli, maturato nel corso di diversi anni di ricerca e di studio. Un lavoro che ha sicuramente le sue radici nella sociologia ma anche nel rifiuto della realtà così come è data; che sembra teso a mettere in discussione il noema della fotografia, quell’ “è stato” di cui parlava Roland Barthes, per esplorare, invece, attraverso la messa in scena e la poetica del “rimescolamento” (C. Marra), emozioni e visioni filosofiche, interrogazioni sull’identità. Una pratica che già le avanguardie surrealiste del primo Novecento avevano largamente utilizzato, favorendo lo sviluppo di un diverso approccio alla fotografia, intesa più come interrogazione che sola rappresentazione. Pur muovendosi all’interno di questa pratica, nel corso del tempo, Filippo Romanelli ha però finito per sviluppare un iter progettuale che si colloca visivamente in un contesto contemporaneo e ha molteplici e riusciti sconfinamenti nella narrative art.

Il valore aggiunto del progetto – divenuto un libro nel 2017, grazie a una campagna di crowdfunding promossa dalle edizioni Crowdbooks – sta senza dubbio nella capacità straordinaria con cui il suo autore ha affrontato, senza forzature, un tema così complesso come quello dell’identità di genere attraverso la contaminazione e la messa in discussione dei generi fotografici.

Nella scheda di presentazione, durante la campagna di crowdfunding, Filippo Romanelli descriveva così i suoi intenti: Ci sono persone che sentono che il sesso a loro attribuito alla nascita non li descrive completamente o affatto. Ci sono persone che non si identificano nell’eteronormalità tipica della nostra società, che rifiutano le rigide categorizzazioni e gli stereotipi di genere poiché questi non possono descrivere adeguatamente la multiforme natura della psicologia e dell’identità umana. Ci sono persone che rivendicano il diritto ad autodeterminare i propri corpi e i propri desideri. È proprio da queste persone che la mia idea di progetto parte per sviluppare un discorso sul gender.

L’autore è profondamente convinto che il gender sia una tematica universale e non possa essere circoscritta agli ambienti LGBT. Tutte le nostre vite – dichiara nel corso dell’intervista – sono alla fine storie di genere poiché tutti siamo condizionati dal modo in cui la società ci istruisce al genere fin dalla più tenera età. Basti pensare al colore rosa e azzurro dei fiocchi che adornano i grembiuli dei bambini nella scuola dell’infanzia, alle immagini e alla filosofia dei cartoni animati per rendersi conto di come questo approccio manicheo finisca per incidere negativamente sull’immaginario dei bambini e, una volta diventati adulti, sul loro approccio nei confronti delle differenze di genere.

Siamo abituati a identificare il genere come una realtà dicotomica, in cui sono presenti solo due identità possibili e peraltro contrapposte: il maschile e il femminile. Una società basata su una contrapposizione così decisa crea inevitabilmente rapporti di potere e diseguaglianze, influenza e condiziona sottilmente la nostra vita. Tutti noi, non solo coloro che appartengono alle realtà LGBT, subiamo un forte condizionamento sociale che si realizza attraverso la religione, il linguaggio, l’iconografia. Non a caso ho scelto di aprire e chiudere il libro con due immagini religiose: la costola di Adamo e il mio Gesù queer.

Per contrastare questo forte condizionamento dobbiamo ripensare il genere in altro modo. Nella realtà ci sono persone che vivono un continuum di identità possibili, testimoniando la possibilità di muoversi tra questi due poli contrapposti. È a partire da questa consapevolezza, da un modo “altro” di vivere l’identità di genere che ho deciso di strutturare il progetto e di trattare il genere come una realtà fluida, come un continuum di identità possibili ai cui estremi vi sono i concetti di “maschio” e “femmina”, in contrasto con la corrispondenza biologica e con quello che i condizionamenti sociali ci hanno abituato a pensare.

Filippo Romanelli ha esplorato diverse ipotesi concettuali e alimentato le sue elaborazioni intellettuali, politiche, estetiche attraverso uno studio teorico serrato, per aprire a punti di vista diversi e schiudere la coscienza ad una maggiore consapevolezza e fluidità. Ha utilizzato la fotografia – ultima parte di un lungo percorso – così come la scrittura, l’indagine statistica, la ricerca d’archivio, la realtà aumentata. Il risultato è un libro estremamente complesso ma anche immediato nella sua fruizione, segno che l’impianto teorico su cui è strutturato è stato fortemente metabolizzato e interiorizzato dal suo autore.

Un libro di grande equilibrio e grande forza comunicativa, curato dal fotografo in ogni minimo dettaglio, anche nella parte grafica e nella scelta di un tipo particolare di cubo come simbolo sul retro di copertina. Il cubo di Necker, modificato da Carter nel 1996 in The Angel’s Dictionary, è una figura geometrica che il cervello vede tridimensionale e alternativamente concavo e convesso, una figura che simboleggia la possibilità di vedere il genere come realtà fluida all’interno di un mondo che è impostato per classificare ogni persona esclusivamente come una delle due opzioni binarie possibili. Invita a mettere in discussione ciò che si vede, o si è convinti di vedere, per cogliere la vera immagine di ciò che ci è di fronte.

Sono sempre molto attratta dalle motivazioni personali da cui scaturisce un progetto ma, ancora di più, dalla successiva messa in pagina delle immagini realizzate, dalla struttura narrativa che prende forma, via via, attraverso la sequenza e l’accostamento delle immagini. Ritengo che sia un momento particolarmente delicato e creativo che il fotografo deve affrontare per arrivare a comunicare in maniera stringente la propria visione. Non si tratta di un’operazione semplice: non sono sufficienti capacità organizzative e logiche, non ci si può limitare ad accostare le immagini per vicinanza formale. Si tratta anche qui di fare i conti con un processo psichico, di elaborare un percorso di accoglimento di ogni immagine, in relazione alle altre. È una sinergia complessa, che prevede rinunce in vista di un fine e di un interesse generale.

Nel corso della lunga conversazione mi rendo conto, ancora una volta, della straordinaria abilità progettuale acquisita da questo autore, giovane ma dotato di profondità e densità, della sua capacità di essere contemporaneamente fotografo, art director e grafico, della sua padronanza riguardo alle dinamiche della narrazione: Una volta raggiunta una discreta consapevolezza teorica sull’argomento – continua a raccontare Romanelli – mi sono posto il problema di come rappresentare fotograficamente le posizioni complesse e articolate che ruotano attorno alla tematica del genere. Non mi bastava ritrarre soggetti appartenenti agli ambienti LGTB, volevo in qualche modo collegare la dimensione individuale a quella collettiva.

Ho dunque scelto di utilizzare diversi linguaggi, di accostare immagini d’archivio a ritratti posati, still life, fotografie di messa in scena; di fare appello ai miei ricordi e alle mie esperienze personali e di mescolarle con le storie delle persone che ho incontrato nel corso del progetto e con cui ho stabilito un rapporto di fiducia e complicità, accogliendo le loro fragilità ma anche il loro coraggio. Ho cercato di trovare storie da raccontare che coprissero i tanti aspetti diversi di questa realtà, dalla realtà intersessuale a quella transessuale, dalle drag queen alla maternità omogenitoriale.

Enrica e Silvia costituiscono una coppia omogenitoriale. Nel marzo 2012 sono diventate le mamme di due gemelli, Andrea e Dario.

Nei ritratti ho scelto l’ambientazione e la frontalità come specchio di una rappresentazione onesta e diretta– spiega Romanelli. Avevo in mente la lezione di Paul Strand e ho cercato di riprendere i miei soggetti all’interno delle loro abitazioni, nei luoghi dove si sentivano protetti per poter ritrovare, anche nel momento dello scatto, l’intensità e la fiducia che si era instaurata fra noi. Volevo pormi in maniera delicata nei confronti di queste persone, volevo che la sfera privata fosse sovrana e i soggetti liberi di muoversi a loro piacimento, senza i condizionamenti che impone la società. Ho registrato le nostre conversazioni, l’emozione che trapela dalle loro voci, dalle loro storie. Nel libro ne sono state trascritte brevi parti ma utilizzando i codici di realtà aumentata si possono ascoltare integralmente le interviste, si può entrare dentro ogni storia in modo intenso e partecipe.

Il metodo di lavoro è stato molto preciso e nella progettazione sono stato sicuramente aiutato dalle mie precedenti esperienze professionali in agenzie pubblicitarie, dove era essenziale definire obiettivi e strategie. Per quanto riguarda le fotografie allestite, più strettamente connesse all’ immaginario personale e collettivo, sono partito definendo a tavolino cosa volevo dire e come volevo dirlo, lavorando sulla decostruzione di stereotipi e pregiudizi, utilizzando il sarcasmo e l’ironia nella rappresentazione visiva. Sono così nate immagini come quella di San Sebastiano trafitto dalle freccette di gomma, la Cenerentola con la zucca e la gamba pelosa.

Il ricorso alla citazione, all’appropriazione di immagini che fanno parte della cultura religiosa e della storia dell’arte si fonde in questo bellissimo libro con la storia della fotografia, con la decostruzione e la ricomposizione, in una riuscitissima pratica di contaminazione e completezza nell’abbracciare vari generi. Un ottimo esempio di realtà e immaginario che si fondono. Un ottimo esempio di fotografia/pensiero che ci invita a indagare le sfumature molteplici della realtà e dell’identità di genere.

Fotografie: © Filippo Romanelli

 

 

Il libro:
Filippo Romanelli
Just Another Gender Theory
Crowdbooks, 2017

 

7 ottobre 2021

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