di Daniela Tartaglia
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Il tempo è uno stato.
È la fiamma
nella quale vive
la salamandra dell’anima dell’uomo.
Il tempo e la memoria sono fusi l’uno nell’altra,
sono le due facce di una stessa medaglia.
(Andrej Tarkovskij)
Resuscitare l’enorme edificio del ricordo – scriveva Marcel Proust in uno dei volumi della Recherche, viaggio letterario sul tema della memoria. Esattamente quello che è riuscito a fare, nel cinema, il grande regista russo Andrej Tarkovskij (1932-1986) che di Proust, come del resto anche di Dostoevskij, è stato appassionato lettore. Autore di autentiche pietre miliari nella storia del cinema quali L’Infanzia di Ivan (1962), Andrej Rublëv (1966), Solaris (1972), Lo specchio (1975), Stalker (1979), Nostalghia (1983), Sacrificio (1986), Tarkovskij si caratterizza per uno sguardo personalissimo sul mondo, uno sguardo che avvicina i suoi film più alla poesia e alla preghiera che non alla solida struttura organizzativa e professionale a cui il mondo del cinema solitamente rimanda.
Cresciuta, fin da giovanissima, all’ombra delle suggestioni visive del grande regista russo ho avuto, anche io, bisogno dei suoi film, alla pari dell’operaia di Novosibirsk che scriveva al regista: “In una settimana sono andata quattro volte a vedere il Suo film. E ci sono andata non semplicemente per vederlo, ma per vivere qualche ora di una vita vera, assieme a degli artisti veri e a degli esseri umani veri… Tutto ciò che mi tormenta, che mi manca, di cui ho nostalgia, che mi indigna, che mi nausea, che mi soffoca, che mi illumina e mi riscalda, di cui vivo e che mi uccide, tutto questo l’ho visto nel Suo film, come in uno specchio. Per la prima volta un film è diventato per me realtà, ecco perché vado a vederlo: vado a vivere in esso.”
Immagine filmica e immagine fotografica nella visione di Andrej Tarkovskij nascono entrambe da un’urgenza poetica, che non è semplice genere letterario ma una percezione, una filosofia, uno speciale rapporto con la realtà. L’attitudine poetica, nella visione del grande regista russo, non è però vaghezza, sogno, effetti speciali, non si pone come generatrice di simboli ed allegorie manieriste, non è discosta dalla concretezza fattuale della vita reale. È, viceversa, – per usare le parole del poeta Yves Bonnefoy – “sospesa e incantata resistenza al nulla, prossimità alle cose, al loro respiro per liberarle dalla loro riduzione alla lettera, al puro significante.”
Nella cinematografia tarkovskiana, il principio formativo principale è sempre stato l’osservazione della vita allo stato puro. Osservazione, esattezza e precisione che hanno però avuto bisogno di essere fermate, scolpite e dilatate attraverso il tempo, che hanno necessitato di una grande istanza morale e spirituale come quella che ha guidato l’uomo e l’artista durante tutta la sua vita.
Scrive Andrej Tarkovskij nel suo Scolpire il tempo, celebre testo di analisi filmica e suo testamento visivo: “L’immagine non è questo o quel significato espresso dal regista, bensì un mondo intero che si riflette in una goccia d’acqua, in una goccia d’acqua soltanto […] l’immagine artistica è un seme, un organismo vivente in evoluzione […]. L’immagine artistica è di per sé espressione della speranza, grido della fede, e ciò è vero indipendentemente da cosa essa esprima, foss’anche la perdizione dell’uomo. L’atto creativo è già di per sé una negazione della morte. Ne consegue che esso è intrinsecamente ottimista, anche se in ultima analisi l’artista è una figura tragica.”
Anche nella fotografia istantanea che Andrej Tarkovskij cominciò ad utilizzare a partire dal 1977 si avverte questo forte afflato spirituale e questa incessante riflessione sul passare del tempo. In un momento particolare della vita del grande intellettuale e regista russo, caratterizzato da contrasti insanabili con i dirigenti del partito comunista sovietico che lo porteranno in breve sulla strada dell’esilio – Italia, poi Svezia, infine Parigi dove morì e dove è sepolto – la Polaroid diventa insostituibile compagna di viaggio, quaderno di appunti visivi, strumento per congelare un frammento di realtà, per bloccare il tempo e proiettarlo in uno spazio infinito e assoluto. A differenza di altri fotografi che hanno usato la Polaroid come gioco, strumento di registrazione del caos della vita, dilatazione della spazialità, il regista russo utilizza la fotografia a sviluppo istantaneo per impadronirsi del tempo e del ricordo, per resuscitare la memoria. In accordo con la sua aspirazione a stabilire un rapporto molto stretto con la vita e con il trascorrere del tempo, utilizza una tecnica fotografica semplice, che non ha bisogno di successive ridefinizioni dell’immagine in camera oscura.
Le sue sono “rapide occhiate, voli di farfalle attorno agli occhi di chi sente la brevità della vita, pane da mangiare assieme ad altri” – come scriverà Tonino Guerra, suo amico e sceneggiatore oltre che artefice dell’incontro di Tarkovskij con la Polaroid SX 70, utilizzata a lungo per indagare e memorizzare le possibili ambientazioni per il film Nostalghia.
Andrej Andreevic Tarkovskij – figlio del regista e presidente dell’Istituto Internazionale che porta il nome del padre, con sede a Firenze, in via San Niccolò – ci racconta di questo intenso rapporto del padre con l’immediatezza della Polaroid:
Non ricordo che avesse un qualche interesse per la fotografia analogica, non l’ho mai sentito parlare, ragionare di fotografia o di autori affermati. Non comprava libri di fotografia anche se nella sua biblioteca si possono trovare alcuni cataloghi di fotografia. Era interessato alla pittura del Quattrocento e Cinquecento, da cui traeva grande ispirazione, e alla musica. Però la Polaroid gli piaceva molto per la sua immediatezza, per la possibilità di vedere subito il risultato. Tra l’altro la padroneggiava molto bene e riusciva a governare l’inquadratura e il difetto della parallasse. Quando tornò in Russia dopo 1980, portò con sé la Polaroid 600 e scattò moltissime immagini, forse le sue più belle ed intense. Non so se allora presagiva che non sarebbe mai più tornato nella sua patria. Sicuramente ne avrà avuto l’intuizione, vista la grande sensibilità di cui era dotato.
Tra l’altro alcune bellissime Polaroid scattate in Russia, nel 1981, nella nostra casa di campagna, situata a 300 km da Mosca, gli servirono per alimentare il ricordo nel ricostruire la scenografia della casa di famiglia, durante la lavorazione del film Nostalghia. Quando mio padre arrivò ad Otricoli, paese umbro sulle rive del Tevere dove sarebbero state girate alcune scene del film, esplorò il luogo e, basandosi su quelle immagini, scelse esattamente l’inquadratura delle riprese. Piazzò un paletto in mezzo a un campo per ricordarsi dove sarebbe stata sistemata poi la cinepresa e dove avrebbe dovuto essere ricostruita la nostra casa di campagna in Russia. L’assistente del suo scenografo mi ha raccontato che quando mio padre tornò, qualche mese dopo, si accorse che la ricostruzione della facciata della sua casa a Myasnoe non coincideva con l’inquadratura scelta. Ricordava bene il rapporto e le dimensioni della casa – aveva, tra l’altro, lasciato le polaroid allo scenografo perché vi si attenesse – e così, invece di spostare il punto di vista della ripresa, come forse avrebbe fatto chiunque altro, fece spostare la casa di due metri a destra, obbligando gli scenografi a smontare e rifare tutto. Era molto preciso. Molto attento ai dettagli e alla sacralità del ricordo.
Sebbene non ci sia stata consapevolezza, da parte del grande regista, di una vocazione autoriale nella pratica fotografica, le sue polaroid ne testimoniano la coerenza emotiva e spirituale, incentrata sulla pratica del ricordo come creazione, sulla pietas, attraverso cui Tarkovskij ha cercato di esercitare la sua libertà creativa. Convinto che il movimento del cuore, innestato dal ricordo, fosse l’unico in grado di consentire agli occhi di vedere oltre il confine dell’apparenza.
La sua ricerca artistica – sia in ambito cinematografico che fotografico – era dunque strutturata fondamentalmente sulla sacralità della visione, sulla percezione della profondità del tempo in cui osservazione e contemplazione possono fondersi mirabilmente. Non sono stati tanti i registi e fotografi capaci di perseguire questa pratica e dare forma a questo meccanismo percettivo nella costruzione delle inquadrature e dei piani sequenza, un meccanismo che ha più a che fare con le pratiche zen o di autocoscienza che non con una solida e rassicurante capacità professionale e organizzativa. Nel suo libro Scolpire il tempo sono molte le pagine dedicate a riflettere sulla differenza insita fra professione, mestiere e arte all’interno della pratica cinematografica, molti gli esempi attraverso cui cerca di chiarire che “la cosa più difficile per una persona che lavora nel campo dell’arte è crearsi una propria concezione, senza aver timore dei limiti di essa, neppure di quelli più dolorosi, e attenervisi. La cosa più semplice, invece, è essere eclettici, seguire le forme e i modelli stereotipati dei quali non c’è penuria nel nostro arsenale professionale. Ciò è più facile per l’artista e più semplice per lo spettatore. Ma in ciò si cela il più spaventoso dei pericoli: quello di smarrirsi.”
In tutte le centinaia di piccole polaroid che amava scattare per immortalare i paesaggi brumosi, intimi e familiari della propria casa di campagna in Russia così come nelle serie scattate durante la lavorazione del film Nostalghia a Bagno Vignoni, a Monterano, a Civitavecchia, lo sguardo di Tarkovskij accarezza cose e persone, imponendo un atteggiamento sacrale, una sorta di genuflessione verso emozioni e ricordi evocati da quelle immagini sature, dai colori pastello.
Si sente certamente la sua passione per la pittura, la vicinanza ai paesaggi fiamminghi di Bosch e di Bruegel, alla pittura di Antonello da Messina e di Piero della Francesca, alla prospettiva inversa delle icone russe ma fondamentalmente lo sguardo di Tarkovskij è rivolto ad indagare il quotidiano per arrivare a produrre un’immagine che sia più vicina alla verità psicologica che non a quella fattuale. Anche la scelta cromatica – effettuata in funzione espressiva attraverso l’uso della Polaroid e di una certa luce – ci rivela una notevole consapevolezza e diffidenza nei confronti dell’effetto troppo attivo del colore, della sua riproduzione meccanicamente esatta che viene neutralizzata da Tarkovskij in favore dello stupore che nasce dall’osservazione degli elementi naturali, dallo scorrere dell’acqua – elemento assai presente nella sua cinematografia – dai raggi del sole che filtrano attraverso le foglie, dal suono della pioggia e del vento e anche dall’interno della propria casa, del giardino, del volto dei propri cari, con una nostalgia struggente nei confronti della sua terra, la madre Russia, della sua casa, del figlio Andrej e del cane Dak, rimasti ostaggio del governo sovietico durante il suo esilio.
Anche il figlio Andrej Andreevic, autore di un bellissimo documentario sulla vicenda biografica ed artistica del padre Il cinema come preghiera (2019), ci conferma il rapporto non risolto che Tarkovskij ebbe con il colore, anche nella produzione cinematografica:
Il colore non gli piaceva molto. Nei suoi film non è mai presente un colore “sparato”, salvo in Solaris dove invece si è basato sulla cromaticità, sulla forza del colore, attraverso anche un grande lavoro di post-produzione. Solitamente amava il bianco/nero o un colore molto slavato, assai affine a quello delle polaroid prodotte in quegli anni e dovuto ad una particolarità chimica della pellicola. L’omogeneità che si ritrova nelle sue immagini e nei suoi film dipendeva molto dalle atmosfere, dall’ambiente circostante, dalla luce che andava a cercare e da cui riceveva l’input, l’ispirazione, non tanto dalla correzione colore fatta in post-produzione. Aveva un fiuto speciale per i luoghi, per certe atmosfere capaci di esprimere tensione emotiva. Li cercava e quando trovava il luogo, per lui vera fonte di ispirazione, il più era fatto.
Gran parte di queste polaroid, realizzate fra il 1980 e il 1984, sono state trovate, alla morte del regista, in una scatola di scarpe, selezionate e poi raccolte nel volume Luce Istantanea a cura di Giovanni Chiaramonte e Andrej A. Tarkovskij, con introduzione di Tonino Guerra (Edizioni Della Meridiana, Firenze 2002). Ci è sembrato particolarmente interessante, all’interno della pubblicazione, l’equilibrio che i due curatori sono riusciti a realizzare fra testi e immagini, il dialogo che si instaura fra le immagini del libro e le riflessioni (o semplici osservazioni) del regista, tratte dai suoi diari personali (Martirologio) e dal saggio Scolpire il tempo. Redatte in uno stile semplice e diretto tali riflessioni hanno il merito di introdurci, immediatamente, dentro la complessa e tormentata vicenda artistica e spirituale di Tarkovskij, dentro al suo misticismo, al tema delle radici, dei legami con la casa paterna, con l’infanzia, con la patria, con la terra, con gli haiku della poesia giapponese a cui il grande regista si sentiva molto vicino per la semplicità e precisione dell’osservazione.
Scriveva a tal proposito: “Lo haiku coltiva le proprie immagini in maniera tale che esse non significano nulla, all’infuori di se stesse, esprimendo tuttavia nello stesso tempo così tanto, che è impossibile coglierne il significato complessivo. […] Chi legge la poesia haiku deve dissolversi in essa come ci si dissolve nella natura, sprofondarsi in essa, perdersi nelle sue profondità come nel cosmo dove non esistono né basso né alto. […] I poeti giapponesi erano capaci di esprimere in tre righe di osservazione il proprio rapporto con la realtà. Essi non si limitavano ad osservarla, ma senza agitazione e senza inquietudine ne ricercavano l’eterno significato. Quanto più esatta è l’osservazione tanto più essa è unica. E quanto più essa è unica, tanto più è vicina all’immagine.”
Esattezza dell’osservazione ma anche capacità di andare oltre il contingente, alla ricerca dell’eterno significato: una grande questione che coinvolge anche l’identità profonda della fotografia e ne sottolinea il suo valore di rivelazione perché la fotografia – per dirla con le parole di Jean-Christophe Bailly – “trasporta nella sua presa […] la rivelazione di uno stato di realtà che lo sguardo abituale lascia allo stato dormiente.”
Il libro:
Andrej Tarkovskij,
Luce istantanea
a cura di Giovanni Chiaramonte e Andrej A. Tarkovskij
introduzione di Tonino Guerra
Edizioni della Meridiana Firenze, 2000
Fotografie: © Archivio Andrej Tarkovskij, Firenze
1o novembre 2020