di Claudia Stritof
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Bob Dylan nel 1962 dona al mondo A Hard Rain’s A-Gonna Fall, una ballata di straordinaria complessità compositiva e di sublime lirismo poetico.
Un viaggio esistenziale in una realtà drammatica, in cui i bambini nulla stringono nelle loro gracili mani, se non pistole e parole affilate. Dove i neonati sono preda di lupi famelici, uomini abbracciano martelli grondanti di sangue e tuoni ruggenti squarciano il silenzio celestiale preannunciando visioni funeste. Una flebile voce, sorda all’orecchio dell’avido uomo, invoca disperatamente del cibo e una donna solitaria agonizza nel suo corpo bruciante, mentre un uomo, accecato d’odio, non scorge colui che soffre per amore.
A Hard Rain’s A-Gonna Fall è una messa da requiem di struggente tristezza, che esprime con vividezza d’immagine la fine che verrà se l’uomo non si prenderà cura della propria meravigliosa Terra.
Ispirati da questo profetico testo, lo scrittore Lloyd Timberlake e il fotografo Mark Edwards nel 2006 hanno fondato Hard Rain Project, un’organizzazione con sede nel Regno Unito, la cui prima mostra pubblica rendeva aperto omaggio al testo della canzone, interpretando fotograficamente ogni singolo verso attraverso i mali della società contemporanea.
Dopo questo primo importante progetto, sostenuto dallo stesso Dylan, nel 2015 il gruppo ha creato WHOLE EARTH?, una mostra ancor più ambiziosa organizzata all’interno di molte università. Nel 2017 il progetto ha vinto l’importante premio UNESCO-Giappone sull’educazione allo sviluppo sostenibile (ESD), dando la possibilità al gruppo di proseguire la propria attività di ricerca e creare – in collaborazione con scienziati e studenti – mostre, libri, film e conferenze volte a sensibilizzare sulle urgenti questioni globali che l’umanità deve risolvere per poter vivere in un mondo migliore.
La risoluzione delle sfide globali è al centro dei programmi ONU, che con l’ Agenda 2030 si propone la risoluzione dei 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (OSS).
Solo per citarne alcuni: porre fine a ogni forma di povertà e alla fame nel mondo, raggiungere la sicurezza alimentare, promuovere un’agricoltura sostenibile, offrire educazione di qualità e opportunità di apprendimento per tutti. Realizzare l’uguaglianza di genere, garantire la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua; promuovere una crescita economica duratura e assicurare un lavoro dignitoso per ognuno. Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri e duraturi; conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine, infine, rafforzare i mezzi di attuazione degli obiettivi e rinnovare il partenariato mondiale per lo sviluppo sostenibile.
Governi, università, organizzazioni no profit e aziende, in virtù anche dell’ultimo dei diciassette punti, collaborano sinergicamente per il raggiungimento di tali obiettivi, attuando iniziative che spesso prevedono l’uso di importanti tecnologie.
La più usata certamente è la fotografia satellitare e tra i diversi programmi esemplificativo è Copernicus. Nato per volontà dell’Unione Europea, monitora i cambiamenti, attraverso vaste quantità di dati globali provenienti dai satelliti – ma anche da sistemi di misurazione terrestri, aerei e marittimi – utilizzati per fornire informazioni volte ad aiutare la popolazione, le autorità pubbliche e altre organizzazioni internazionali al fine di migliorare la qualità della vita dei cittadini.
Durante i primi giorni in cui la pandemia COVID-19 ha modificato i nostri ritmi di vita, tra febbraio e marzo 2020, tutti (o quasi) ci siamo fermati con sguardo incredulo davanti alle fotografie satellitari che mostravano le città deserte e che informavano anche sulla drastica riduzione dell’inquinamento nelle metropoli e nelle maggiori aree industriali del mondo.
La fotografia satellitare infatti è usata sia per monitorare e mitigare l’impatto delle pandemie, come era avvenuto con Ebola, ma anche per sorvegliare le frontiere, monitorare l’agricoltura, combattere l’insorgere dell’abusivismo, controllare la crescita sostenibile delle città o bloccare il disboscamento illegale.
La Planet Labs, tra le maggiori aziende attive in questo settore, è stata fondata – come leggenda vuole – da un gruppo di ragazzi in un garage della Silicon Valley nel 2010. Spinti dalla volontà di “democratizzare l’accesso all’informazione satellitare”, costituendo “la più grande collezione di immagini satellitari della storia dell’umanità”, i soci hanno creato dei satelliti ultracompatti contenenti al loro interno sensori che scattano fotografie ad alta risoluzione.
Il nome dato ai satelliti rispecchia il fine umanitario con cui è stata concepita l’azienda (“Dove“, ossia “colomba”) i quali, restando a livello di una singola orbita, lentamente percorrono la Terra nel suo ruotare e fotografano tutti i punti del pianeta ogni 24 ore, riuscendo a tracciare la crescita urbana ogni singolo giorno.
Internet è diventato un grande archivio, fonte di conoscenza illimitata, nel quale istantaneamente vengono inserite milioni di immagini; Google Street View per questo aspetto è stata certamente visionaria, concorrendo alla creazione di una realtà dove non solo è possibile ammirare luoghi che altrimenti non si vedrebbero, ma permettendo di camminare virtualmente in essi.
Oggi questa potenzialità si è notevolmente ampliata, ma a ispirare i ricercatori, come conferma il CEO e co-fondatore della Planet, Will Marshall, è sempre stata una fotografia, la Blue Marble, scattata il 7 dicembre 1972 dall’equipaggio dell’Apollo 17.
Immagine divenuta iconica, tanto quanto la canzone di Bob Dylan, che mostrandoci la vulnerabilità del globo hanno ispirato sensibili profeti animati dalla volontà di rispondere all’ultima disperata invocazione d’aiuto della divina Gea.
Oh, what’ll you do now, my blue-eyed son?
Oh, what’ll you do now, my darling young one?
9 luglio 2020