di Daniela Tartaglia
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Vi sareste mai immaginati che al numero civico 110 di MacDougal Street – una sorta di centro estetico che offre a prezzi speciali servizi di manicure e pedicure – ci fosse stato, negli anni Sessanta, un punto di aggregazione dei musicisti folk, il luogo dove Bob Dylan trascorse molti dei suoi primi giorni a New York? E che in un’anonima palazzina bianca, situata al 105 di Bank Street nel Greenwich Village, avessero vissuto John Lennon e Yoko Ono? Quasi sicuramente no, perché ancora non avevate letto New York Serenade, il libro pubblicato da Skira nel 2017, che ha avuto e continua ad avere una notevole fortuna editoriale.
Un libro che ripercorre un pezzo di storia musicale di New York e che abbina le immagini di Ciro Frank Schiappa a brevi testi di Michele Primi, che ci raccontano – ad esempio – della genesi di un testo musicale, ci introducono al luogo che ha visto consumarsi l’amplesso fra due icone della musica rock, ci mostrano la facciata di mattoni rossi della prima casa dove hanno vissuto Robert Mapplethorpe e Patty Smith, all’inizio del loro sodalizio sentimentale ed artistico. E ci dicono what was it there.
Se dovessi riassumere il senso del progetto dei due autori, ricorrerei proprio a questa frase di Joel Meyerovitz, mentore di Schiappa, tratta dalla sua preziosa introduzione al libro. Il grande fotografo americano sottolinea come il merito di Schiappa e Primi stia nell’aver oggettivato un percorso di recupero di memoria; nell’aver cercato tra le pieghe di una città difficilmente rappresentabile come New York cosa c’era e cosa rimane di uno spirito, di “quel” sacro fuoco che permise a musicisti del calibro di Patty Smith, Leonard Cohen o Iggy Pop di trovare il proprio sound, la propria voce e di esportarla in tutto il mondo.
Con atteggiamento analitico ma insieme amorevole, i due autori sono andati alla ricerca di luoghi connessi a rilevanti momenti della storia del rock in un periodo che va dai primi anni Cinquanta alla contemporaneità. Con intelligenza e serietà, con metodo rigoroso ma lieve, hanno fornito informazioni, lasciando spazio a suggestioni, ad approfondimenti, ad un’ulteriore ricerca, anche di tipo emotivo.
Un progetto ambizioso – realizzato nel corso di quattro viaggi nell’arco di due anni nella metropoli americana – e oltremodo coraggioso perché i due autori hanno deciso di investire tempo e risorse autofinanziando la ricerca documentaria, con il fine di legare indissolubilmente luoghi apparentemente anonimi di New York alla storia del rock e al nostro immaginario musicale.
Tutto è nato nell’inverno 2010, quando Schiappa e Primi – vicini di casa a Barcellona, entrambi amanti del rock e che avevano già lavorato insieme per Condé Nast – decidono di iniziare questa mappatura di New York. I due autori hanno lavorato in sinergia ma con autonomia e rispetto. Ciro Frank Schiappa racconta come la distinzione dei ruoli e l’indipendenza intellettuale abbiano favorito la creatività reciproca, anche se poi i due autori hanno operato a strettissimo contatto programmando spostamenti, richieste di permessi e addirittura le riprese.
Utilizzando un banco ottico 20×25 il fotografo aveva necessità di essere supportato per gestire la pesante e molto visibile attrezzatura. Michele Primi, con leggerezza e disponibilità, si è assunto questo onere rivelandosi un ottimo “assistente”: capace di sostenere ma anche di stare in silenzio, di lasciare spazio alla ricerca della qualità poetica dei luoghi da parte di Schiappa.
“È stato un lavoro di equipe molto stimolante – racconta Schiappa – anche se io all’inizio, avendo uno sguardo già definito sulla città, temevo di essere contaminato da una visione esterna. Anche se Michele è un amico, avevo paura che non venissero rispettati i tempi della ricerca fotografica che – come si sa – sono tempi lunghi per dar modo allo sguardo di decidere su cosa soffermarsi. Invece anche i momenti di silenzio fra me e Michele sono stati naturali, fluidi. Mi sono sentito sempre libero di osservare con calma.
Tra noi non c’è mai stato uno screzio su cosa fotografare o sul fatto che, talvolta, in luoghi dove eravamo arrivati con una certa fatica non mi sentivo di scattare perché non trovavo nulla che mi emozionasse. Michele si è fidato ciecamente delle mie scelte anche perché, dopo il primo viaggio e i primi provini a contatto, si è reso conto della qualità delle mie fotografie. Il libro rispecchia questa armonia ed anche gli incontri interessanti con le persone durante i nostri spostamenti, nelle nostre lunghe camminate. C’è stata molta curiosità per il grande banco ottico, specialmente da parte dei bambini.
Non abbiamo mai vissuto situazioni di stress o di pericolo – continua Schiappa – nemmeno in quartieri popolari come Brooklyn o Harlem dove eravamo gli unici bianchi. Ci siamo posti sempre con rispetto e la gente forse ha capito le nostre motivazioni. Quando abbiamo fotografato l’Apollo Theater, le persone ci fermavano e ci dicevano che dovevamo restituire al meglio quello che era stato quel luogo per la musica rock. A New York, per strada, puoi fotografare liberamente e c’è molta disponibilità, specialmente se capiscono che non sei un paparazzo. Il problema sorge appena ti avvicini ad un interno. Allora devi chiedere permessi, avere il consenso di tutto il condominio.
Abbiamo vissuto un rapporto talmente intenso con la città che ho sentito spesso l’esigenza di fotografare persone incontrate per strada, di inserirle nel progetto. Estranei scelti in base all’istinto, al modo di essere o di camminare che venivano collocati in luoghi, individuati in anticipo, significativi per la storia del rock: una grande libertà, un modo per scappare dalle maglie di un progetto concettuale e rigoroso. Michele ha capito questa mia esigenza e mi ha assecondato. In fondo la trasgressione, la rottura di uno schema appartiene all’anima della musica rock…”
L’approccio concettuale implica una riflessione importante sul potere dello sguardo, su come informazione, emozioni ed immaginario collettivo siano capaci di trasformare l’apparente ordinarietà di spazi urbani in qualcosa di diverso, nuovo, talvolta anche mitico. Nel suo osservare e “sguardare” il fotografo seleziona e demarca la realtà che lo circonda e cosi facendo interviene, anche se in maniera immateriale, sul paesaggio, operando una trasformazione dei luoghi. Dopo questo libro certi angoli, certe strade di NY non saranno più gli stessi, caricati per sempre di un ulteriore significato, legato alle vite e alle storie di tutti i musicisti rock che da lì sono transitati.
Nel restituirci una visione dimessa e “normale” della grande mela, New York Serenade depura lo sguardo dall’immagine stereotipata della metropoli, fatta di grattacieli, di traffico, di gente in perenne movimento; pone l’accento sull’ordinarietà dei luoghi, sull’importanza – di cui parlavano sia Cesare Zavattini che Pier Paolo Pasolini – di trovare cose interessanti da fotografare in qualsiasi luogo, anche in quelli apparentemente marginali.
Lo sguardo e la metodologia di indagine sono legati alla grande tradizione della fotografia documentaria americana, che Schiappa conosce bene e in cui si riconosce, ma intrisi dalla nuova consapevolezza circa la modifica della percezione e dei codici di rappresentazione del mondo. Non bisogna dimenticare che Ciro Frank Schiappa è europeo e questa sua diversità di appartenenza e di sguardo pervade, anche se sottilmente, tutto il progetto. Durante la nostra conversazione Schiappa cita Eugene Atget e Walker Evans e, tra i fotografi contemporanei, si percepisce la sua vicinanza ad autori quali Alex Soth e Stephen Shore.
C’è dunque qualcosa di più in questa marginalità, in questa “qualsiasità” che viene descritta. Per usare un’espressione di Guido Guidi, si sente che, in questo progetto, il fotografo ha lasciato i panni del turista per indossare quelli del pellegrino. Si sente che l’interrogazione di cui si è nutrito lo sguardo di Schiappa è riuscita a mostrare la presenza/assenza della fotografia e che “dalla muta distesa delle cose è partito un segno, un richiamo, un ammicco”.
È l’interrogazione del fotografo che ha prodotto una di quelle fortunate coincidenze in cui – per citare un bellissimo racconto di Calvino – il mondo vuole guardare ed essere guardato nel medesimo istante.
Il libro:
Ciro Frank Schiappa, Michele Primi
New York Serenade
Skira, 2016
Fotografie: © Ciro Frank Schiappa
Testi didascalie: Michele Primi
6 marzo 2020