di Dario Orlandi
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La Genesi biblica è la storia di un dono, un tradimento e una caduta. Al culmine della Creazione, Dio consegna all’Uomo – la più mirabile e ultima delle sue creature – un mondo perfetto, per equilibrio e armonia. All’Uomo Dio dona anche la possibilità di intervenire sul creato: mentre gli altri esseri saranno vincolati ad abilità e habitat circoscritti, l’Uomo potrà spaziare e disporre. A questa libertà, però, Dio pone un limite: l’Uomo non può ambire alla conoscenza ultima, non può farsi da creatura principio, pena la caduta.
L’epilogo è tristemente noto: la smania dell’Uomo lo porterà alla rovina, alla comparsa del male e del caos epurati da un devastante diluvio.
L’aneddoto biblico, attraverso il linguaggio allegorico del mito, svela l’essenza del peccato umano: la volontà di ergersi a principio ordinatore, la tracotanza che lo spinge a violare quell’unione di armonia, bellezza e bontà esemplarmente racchiuse nel concetto greco di kalokagathìa. La stessa intelligenza astratta (la “somiglianza” con Dio) che gli consente di ergersi libero e cosciente fra le creature è essa stessa un dono dell’armonia di cui è parte; l’abuso di tale dono conduce inevitabilmente alla caduta.
Col suo narcisismo tecnologico, con l’ottusa fiducia verso le proprie possibilità a breve termine, l’uomo contemporaneo sta cedendo nuovamente alla tentazione di farsi Dio, reiterando l’errore che lo affligge fin dalla sua comparsa mitologica. La devastazione degli ambienti naturali è la traduzione contemporanea dell’atto di tracotanza con cui i nostri antenati ruppero il patto con l’armonia.
In questo contesto Salgado avrebbe potuto cedere alla consuetudine fotografica della denuncia e raccogliere i presagi della caduta, mostrando gli orrori dell’azione dell’uomo ad un pubblico ormai anestetizzato dall’estetica del male e dalla retorica del consumismo. Avrebbe funzionato? Come in molti si sono domandati – da Melville a Sontag – l’esposizione all’iconografia del male produce, per risposta, il bene?
Salgado ha costruito un monumento al mondo originario, a quella natura primordiale con la quale l’Uomo aveva stretto un patto di alleanza. La natura del racconto di Salgado non indulge mai al pittoresco, non è né buona né bella; è forza generatrice, si manifesta nella sua potente e impietosa immanenza, nel suo ordine amorale. E’ il tempio di un panteismo laico dove pilastri simbolici rievocano il patto originale con l’Uomo e si offrono come pegni di alleanza, definendo nel contempo un monito, un limen. Una natura metafisica come metafisico è il bianco e nero delle immagini (struttura, non documento), dove l’uomo-creatura accade come ciò che lo circonda, parte di un tutto che può plasmare a condizione di non violarlo. Non c’è stupore nelle immagini di Salgado, ma sublime contemplazione e mesta consapevolezza.
La Genesi contemporanea di Salgado è il manifesto di un patto di alleanza fra Uomo e Natura del cui tradimento l’aneddoto biblico racconta l’amaro epilogo. Ma a differenza della irreversibilità del gesto di cogliere una mela, la compromissione degli ambienti naturali è un fenomeno lento e cumulativo; meno evidente, quindi, ma reversibile. La traduzione in chiave contemporanea della metafora biblica lascia dunque aperto uno spiraglio: che sia ancora possibile guardare la mela, magari fremere per coglierla (è il nostro demone), ma alla fine ritrarre il braccio e continuare a godere del nostro Eden imperfetto, lasciando la mela al suo posto.
**Genesis è frutto di un lavoro durato 8 anni, realizzato nel corso di diversi viaggi in luoghi remoti e inviolati del Pianeta: Amazzonia, Congo, Madagascar, Indonesia; Antartide, Alaska, Nuova Guinea; i deserti dell’America e dell’Africa, le montagne d’America, Cile, Siberia. La mostra, a cura di Lélia Wanick Salgado, è stata esposta in numerosi musei in tutto il mondo. Ultima tappa, al Museum für Gestaltung Zürich – il Museo del Design di Zurigo – conclusasi nel giugno 2019.
9 luglio 2019