di Dario Orlandi
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Un lungo piano sequenza inquadra dal basso il pavimento a scacchi di un corridoio d’albergo; in fondo una donna delle pulizie maneggia un aspirapolvere mentre in lontananza risuona una musica anni ’40. Un soldato inglese accende una lampada a olio, una sigaretta e ascolta pensieroso il rumore di un bombardamento sempre più vicino. Mentre pulisce la pistola, la sua mente vola ad un campo da rugby sul dorso ondulato di una collina dove un bambino corre spensierato nell’ultimo sole.
In una stanza dell’albergo, col volto impassibile e il tizzone della sigaretta che gli lambisce le dita, siede immobile Pink; lo sguardo è spezzato da ricordi terribili e dal fantasma di un’incombente follia. Mentre la donna bussa inutilmente alla porta, un enorme portone in legno ondeggia dietro una spinta misteriosa. Nel momento in cui il passe-partout ruota nella serratura, l’esplosione sonora di In the flesh segna il crollo di una cancellata e la corsa all’impazzata di un’ondata di giovani che diventa la fuga disordinata dei soldati inglesi sotto le bombe della Luftwaffe ad Anzio, nel 1944. Mentre il caos imperversa in una notte di scontri fra giovani e polizia, il tentativo disperato del soldato inglese di chiamare (casa?) col telefono militare viene infranto dalla fragorosa planata di un bombardiere tedesco.
Sono i primi nove minuti dello straordinario film musicale realizzato nel 1982 da Alan Parker su The Wall dei Pink Floyd, l’album che segna un passaggio chiave nella maturazione artistica e personale di Roger Waters.
The Wall si sviluppa intorno a un intreccio romanzato di tre biografie, due storiche e una immaginaria, in un inedito percorso di autoanalisi tradotto in musica dall’artista inglese e scaturito da un episodio apparentemente banale: il 6 luglio del 1977, durante la tappa a Montreal di Animals, Waters, infastidito da un fan particolarmente rumoroso, reagisce con uno sputo in un misto di stress e delirio di onnipotenza. A questo episodio – per il quale il musicista si scuserà ampiamente – seguirà una profonda riflessione sui fantasmi personali e sulle responsabilità pubbliche di una rockstar: la ferita mai rimarginata della perdita del padre in guerra, il carico di una madre e di un sistema scolastico oppressivi, la pressione dello star system.
È la storia personale di Waters ed è la biografia romanzata di Pink – protagonista immaginario dell’album e alter ego del leader dei Pink Floyd – il quale, all’apice del successo, comincerà a dare gli stessi segni di delirio che hanno segnato la vita del fondatore della band, Syd Barrett.
Il coagulo di fantasmi del passato, esposizione pubblica e follia trasformerà Pink in un’inquietante figura autoritaria, populista e razzista, che incarna le estreme conseguenze della riflessione personale di Waters: chi ha subito muri (Waters/Pink) tenderà a creare barriere verso l’esterno (Barrett/Pink) col rischio di diventare a sua volta una figura autoritaria e violenta, un pericoloso costruttore di muri.
Il coraggio di Waters nel raccontarsi con tanta spietata lucidità in un’opera sinfonica contemporanea ha pochi corrispettivi nella storia del rock. Straordinarie sono l’intuizione visionaria e la severa autoanalisi che da un triviale fatto di cronaca porterà il musicista ad elaborare una teoria del muro sotto tutte le sue prospettive, da quelle domestiche e intime a quelle sociali e politiche. Un inedito gesto di autocritica in musica, un monito contro il fascino dell’uomo forte da parte di una delle figure più carismatiche degli anni ‘70.
Partendo dalle proprie paure e dai propri errori, Waters si offre nudo sul palcoscenico della libertà, ricordando che il muro è un fantasma che serpeggia nell’intimo dell’uomo, attraversa inesorabile la storia e trova nella società di massa una sponda ideale. Nessuno, neanche nella libera e democratica Inghilterra, può esimersi dalla responsabilità della vigilanza e del pensiero critico.
Il lavoro di Alan Parker sulla traccia di The Wall è monumentale. Nell’intero film della durata di 91 minuti vengono pronunciate una decina scarsa di parole, il resto è messa in scena musicata dei contenuti dell’album: dalla ricostruzione del bombardamento di Anzio dove perde la vita il padre di Waters/Pink, alla irregimentazione in un sistema scolastico tritacarne narrata nella sezione più celebre dell’album, alle adunate paramilitari di Pink tramutatosi in capopopolo nazistoide.
Ogni scena del film è legata a doppio filo con la musica dell’album (a volte rimaneggiata per seguire il ritmo narrativo della pellicola, grandezza del regista e di Waters) creando un dialogo perfetto: musica e immagini si rincorrono e si intrecciano, si anticipano e si confermano; nelle scene girate come nelle splendide e strazianti animazioni di Gerald Scarfe.
Nel complesso dialogo fra musica e immagine in movimento si innesta un terzo linguaggio, quello della fotografia. David Appleby è colui che, con la discrezione e la velocità tipiche dei fotografi di scena, ha affiancato Alan Parker sul set. Le sue immagini fissano i momenti chiave della complessa simbologia dell’album e ne raccontano le fasi della lavorazione, alternando lo sguardo del fotografo documentario attento al racconto con quello del ritrattista capace di fissare in icone l’essenza di un’idea.
Guardando le immagini di Appleby si individuano alcune ricorrenze che corrispondono al complesso ruolo del fotografo di scena: ospite di una narrazione già in essere, testimone degli avvenimenti e traduttore del cinematografico nel fotografico (parenti vicini per sangue, ma poco affini per inclinazione).
Una parte delle immagini mostra il dietro le quinte, svelando tecniche e lavoro di squadra nella realizzazione delle scene più complesse del film: la troupe impegnata nel lancio di oggetti mentre gli studenti devastano la scuola che li mortifica e annichilisce, la camera che segue – con la fisicità musicale della danza – Pink schiacciato contro il muro del suo delirio, il carrello che anticipa la marcia intimidatoria delle squadracce nei sobborghi di Londra.
Spostandosi su una dimensione più intima, l’occhio di Appleby si addentra nel profondo del rapporto fra attore e regista, soffermandosi sui momenti in cui Parker affianca Bob Geldof (Pink) nella ricerca della convergenza drammatica: Parker che inscena uno sguardo vuoto accanto ad un Pink immobile nella scena iniziale del film, ancora Parker che si contorce con Geldof mentre Pink rinasce diabolico dalla crisalide simbolica del muro interiore.
Un’ulteriore serie di immagini allenta la tensione narrativa, isolando momenti in cui gli attori si mostrano nella loro verità creando curiosi pendant con le dinamiche del racconto: la madre oppressiva e glaciale (nel film) che sorride bonaria a un divertito Pink-bambino affiancata da un improbabile Roger Waters; Bob Geldof-dittatore che posa autoironico per una inverosimile foto ricordo in compagnia di facete squadracce.
Infine, sfidando il confine fra immagine statica e immagine in movimento, il fotografo inglese consacra i momenti più forti e iconici del film, quegli istanti che già carichi di tensione nel fluire del racconto trovano nella fissità del fotografico un ulteriore rinforzo: Pink arreso al dolore che si libra a braccia spalancate sull’acqua di una piscina che si sta riempiendo di sangue; ancora Pink che posa con sguardo marziale davanti ai simboli del neonato partito totalitario; l’immagine (forse la più celebre del film) di studenti senza volto che il nastro trasportatore della scuola trascina verso un inesorabile tritacarne umano.
Figura leggera che si aggira nelle retrovie dei set cinematografici, osservatore del vero dietro la finzione, produttore di icone della narrazione, il fotografo di scena svolge un compito complesso e sfaccettato. Con Behind the Wall, David Appleby ha saputo affrontare questa complessità con intelligenza e maestria, dando vita ad una preziosa terra di mezzo dove fotografia, cinema e musica si incontrano in un inusuale e affascinante intreccio di linguaggi per consacrare uno dei capolavori del cinema musicale.
Fotografie: © David Appleby
6 marzo 2020