Gianni Fiorito – La fotografia di scena come costruzione dell’immaginario cinematografico

Sul set del film "Fuoco su di me" di Lamberto Lambertini, 2006.
di Azzurra Immediato
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Fotografia di scena: universo parallelo della cinematografia con la quale, sovvertendo scientifici assiomi, essa si interseca, generando una sorta di galassia che imprime le tracce multiple di ciò che resterà nella memoria collettiva per anni a venire. Ne emerge una visione straordinaria, un mondo altrimenti sommerso che, al contrario, attraverso il lavoro instancabile dei fotografi di scena diventa prezioso archivio, non già e non solo della storia cinematografica ma anche della fotografia. Lo sguardo del fotografo di scena ha del mirabolante, offre, a chi ha la fortuna di vedere tali scatti, uno scenario unico, irripetibile, l’hic et nunc di qualcosa che, al contrario, potrà esser rivisto all’infinito: il film. Il fotografo di scena è, pertanto, un secondo demiurgo, origina una vita altra.

E Gianni Fiorito è il nome per antonomasia della fotografia di scena italiana e non solo, il quale è stato in grado di creare un immaginario collettivo tale da esser divenuto essenza stessa di una certa cinematografia d’autore. Napoletano, con una carriera nata nel reportage, in una Partenope che, negli anni ’80, aveva tante cose da raccontare, di meravigliose, legate alla scena artistica in continuo fermento, ma anche di atroci, legate ai fatti di Camorra, ai processi, a quanto la strada lasciava negli occhi e negli obiettivi dei fotogiornalisti. Molto di questo racconto per immagini di Gianni Fiorito è custodito, come segno della Storia, nel volume Come eravamo. Napoli dal terremoto alla città spettacolo (Silvana Editoriale) legato alla mostra personale del 2004, nelle sale del Maschio Angioino del capoluogo campano.

Per la nuova issue del Photolux Magazine che verte sulla relazione tra Cinema e Fotografia, ho avuto il piacere di dialogare con Gianni Fiorito e porgli alcune domande per poter meglio comprendere cosa accade su un set ma soprattutto cosa è racchiuso nel ruolo del fotografo di scena specie per chi, come lui, aveva costruito la carriera con uno sguardo rivolto alle complessità caleidoscopiche del nostro mondo.

Sul set del film “Youth”, 2015, regia di Paolo Sorrentino.

Cinema e Fotografia: qual è il legame tra i due linguaggi che, agli osservatori e agli spettatori, è impossibile scorgere?

Il legame principale è la storia, ovvero il racconto che è contenuto sia nel film che nella foto di scena. Ma c’è anche un legame più semplice che è l’utilizzo di un mezzo tecnico, l’obiettivo, necessario a catturare delle immagini.
Le analogie però finiscono qui, il linguaggio cinematografico è fatto di movimenti, sia di macchina che di uomini, parole, musiche. La fotografia cristallizza un momento, ha bisogno di una estrema sintesi per raccontare la medesima storia, le stesse emozioni.

Una carriera nata dal fotogiornalismo, quello che ha raccontato le viscere di Napoli, ma anche i suoi successi, le sue tante storie, magmatiche e fluttuanti. Un obiettivo che ha cristallizzato le morti di Camorra o i grandi avvenimenti di una intricata Napoli, nei primi anni ’80; come sei giunto al passaggio in cui il racconto del reale si è tradotto in racconto della finzione cinematografica?

Nei miei primi anni da fotografo professionista mi sono diviso fra uno scrupoloso racconto della vita sociale della città e la documentazione del fermento artistico cittadino dei primi anni Ottanta del secolo scorso, in particolare le arti visive, la musica e il teatro. Quando, vent’anni dopo, agli albori del nuovo millennio, la mutata scena editoriale nazionale ha portato alla crisi delle maggiori testate giornalistiche e alla graduale scomparsa del reportage di approfondimento, mi sono guardato intorno alla ricerca di un diverso approccio professionale e quella esperienza giovanile è stata fondamentale per avvicinarmi al cinema, al set, a un complesso microcosmo dove si svolgono tante storie, reali e di fantasia, con innumerevoli spunti di racconto.

Se a questo si aggiunge che sono sempre stato un vorace divoratore di film – fin da adolescente andavo al cinema anche quattro, cinque giorni a settimana – il gioco è facile.

Cristiana Dell’Anna sul set di “Gomorra 4”, regia di Marco D’Amore.

La fotografia di scena cosa chiede allo sguardo di un fotografo? E cosa ha chiesto a Gianni Fiorito?

Concentrazione e capacità di sintesi. La seconda si era già affinata nei vent’anni di lavoro giornalistico, quando un avvenimento andava raccontato in un unico scatto da riprodurre sulla pagina di un giornale con lo scopo di attrarre lo sguardo del lettore, la sua attenzione, restituendogli in un istante tutti gli elementi per comprendere la vicenda raccontata. La concentrazione è necessaria per poter osservare le tante storie che contemporaneamente si svolgono sul set ed intorno ad esso, sia finte – la scena del film, i suoi protagonisti – che reali – il lavoro dei tecnici e delle maestranze, il lavoro del regista, il suo rapporto con gli attori e gli altri professionisti della troupe. Il fotografo di scena è materialmente dentro tutto questo mondo, ma solo attraverso la concentrazione, il suo astrarsi può, simultaneamente e figurativamente, stare tre metri fuori e osservare tutto ciò, pronto a saltare da una storia all’altra e fotografarla.

Esiste lo scatto perfetto, quello che racconta la cinematografia precipua di un’opera, i desiderata del regista, dello sceneggiatore e che deve, necessariamente, esser racchiusa in un solo, essenziale, scatto?

Certo, è quella che io chiamo la sintesi necessaria, che si ottiene quando con una singola fotografia si riesce a raccontare un’intera storia. Nel caso della foto di scena, una storia cinematografica. Già da quando leggo la sceneggiatura la mia attenzione si focalizza su alcune scene che sono centrali per il racconto, poi, durante le riprese, seguendo la messa in scena del regista e la recitazione degli attori diventa più chiaro quali sono gli aspetti più importanti da evidenziare nelle fotografie.

Sul set del film “This Must Be the Place”, 2011, regia di Paolo Sorrentino. Il regista (a sinistra) e Sean Penn.

Negli anni molte tue fotografie, ben note, ed altri scatti rubati dal set, hanno preso la forma di una mostra. Una sorta di “scatola cinese”, una mise en abyme di qualcosa di finto, narrato dalla verità fotografica, pronta a farsi finzione cinematografica… e via discorrendo. Cosa racconta, davvero, una mostra in cui la fotografia di scena diventa protagonista, giungendo al centro del “palco attoriale” e spostando, per pochi istanti, l’attenzione dal già noto della trama filmica? E dove finiscono, poi, tutti gli scatti di un set?

Rispondo partendo dalla fine della tua domanda: dell’enorme mole di lavoro realizzato sul set dal fotografo di scena, la produzione, attraverso i suoi uffici di promozione, utilizzerà una limitata quantità di immagini, che può variare fra le 10/30 foto per un film alle circa 100 per una serie TV. Questo dato mi ha spinto fin dall’inizio della mia esperienza sul campo a cercare di valorizzare maggiormente il lavoro fotografico realizzato, promuovendo al contempo l’opera cinematografica ma dando, anche al mio lavoro di fotografo di scena, il carattere di un’opera unica. La realizzazione di libri e mostre fotografiche mi permette di evidenziare l’intera complessità del mio racconto, l’intero set diventa un’unica storia fatta di uomini, paesaggi, attese, dove la realtà incontra l’immaginario e la fantasia sfocia nel vero.

Cosa è rimasto, oggi, nel linguaggio della fotografia di scena del Gianni Fiorito fotoreporter partenopeo e cosa cederesti al giovane di allora, che guardava la brutalità del reale senza timore?

Tantissimo, il mio approccio al set resta quello di un fotoreporter attento a cogliere un gesto, un’espressione. La mia posizione sul set muta continuamente, a volte al centro della scena, altre più defilata, alla ricerca della condizione di invisibilità, l’unica che permetta di cogliere un momento senza condizionarlo. Al quel giovane fotoreporter consiglierei una maggiore volontà di sperimentare, di “spettacolarizzare” le sue immagini.

Sul set del film “Youth”, 2015, regia di Paolo Sorrentino.

“La fotografia cristallizza un momento, ha bisogno di una estrema sintesi per raccontare la medesima storia, le stesse emozioni” afferma Fiorito il quale discende nel sotteso delle idee secondo un percorso a tratti emozionale: “Già da quando leggo la sceneggiatura la mia attenzione si focalizza su alcune scene che sono centrali per il racconto” e da tale processo ciò che nasce è una immaginifica visione, quella che Gianni Fiorito chiama “sintesi necessaria” ma che, tuttavia, sa rivestirsi di un’aura ricca di insondabile pathos.

La fotografia di scena rappresenta, probabilmente, l’eco surreale del racconto cinematografico e osservando gli scatti di Gianni Fiorito si origineranno, nella mente di ogni lettore, infinite e personali sinapsi, a favore della costruzione reale di una memoria fondata sulla finzione scenica. Fiorito legge ed interpreta le idee di un regista e di uno sceneggiatore attraverso la parola scritta, traduce in immagine ideale tale racconto iniziale e, con atto quasi magico, ricerca – trovandola – quell’immagine perfetta, l’istante irripetibile che racchiude in sé la vera essenzialità del film. Certamente l’esperienza è punto cardinale poiché l’approccio di Gianni Fiorito sul set “resta quello di un fotoreporter attento a cogliere un gesto, un’espressione” ed è così che la sua visione si sovrappone, per subitanea illusione, con la nostra, dando vita all’infinito archivio di una utopica ed ammaliante dimensione.


Fotografie: © Gianni Fiorito


10 novembre 2020

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