di Dario Orlandi
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“La fotografia non sa mentire, ma i bugiardi sanno fotografare”.
Con questo aforisma – il “postulato” che Lewis Hine formula nel 1909 – Michele Smargiassi introduce l’occasione che ha portato alla stesura di Un’autentica bugia, uno dei saggi più interessanti e completi degli ultimi anni sull’ambigua dialettica fra la natura di indice/documento della fotografia opposta alla sua capacità di menzogna.
Per Hine la bugia fotografica non può essere attribuita al mezzo, ma solo all’uso proditorio da parte di fotografi “bugiardi”.
Ma davvero la fotografia non sa mentire, ci aiuta a riflettere l’autore? Come può uno strumento – se pur meccanico – la cui natura consiste nell’isolare delle porzioni di spazio e tempo e riprodurle su di una superficie piana e statica essere assunto come strumento di rappresentazione del reale? E che dire poi degli usi mistificatori della fotografia da parte dei fotografi? Sono necessariamente intenzionali – e quindi condannabili – oppure fortuiti o inconsci, quindi meno identificabili e meno biasimevoli? E se anche fossero intenzionali, quando sono veramente riprovevoli o quando si meritano – al massimo – un affettuoso buffetto?
Nella parte centrale il libro sviluppa una profonda e ampiamente documentata fenomenologia della menzogna fotografica. Un catalogo del quando, quanto, come e perché la fotografia (quale fotografia?) “mente sempre, mente per istinto, mente perché la sua natura non le permette di fare altro” (Fontcuberta).
Se è vero che ogni fotografia afferma un “esserci-stato” (Barthes) è altrettanto vero che nei processi di produzione dell’immagine sono molteplici e fortemente distorsivi i passaggi intermedi, più o meno intenzionali: dalla natura meccanico/materica del mezzo alle scelte necessarie in fase di scatto, elaborazione, edizione, pubblicazione.
La qualità tecnologica – si domanda l’autore – influisce sul livello di inaffidabilità della fotografia? Alcuni critici ritengono che la numerizzazione dei processi di registrazione/archiviazione abbia prodotto una smaterializzazione del contatto referente-immagine che ha indebolito – se non abolito del tutto – quel legame fisico/materico che univa oggetto e rappresentazione (Mitchell, Ritchin). È pur vero, tuttavia, che anche in ambito analogico la funzione documentale della fotografia poggia sulla consapevolezza della natura indicale del mezzo: “la fotografia produce icone del vero solo perché raccoglie indici, cioè impronte di oggetti reali; e io lo so. […] E questo vale qualunque sia la tecnica utilizzata per raccogliere l’impronta”.
La fotografia, dunque, mente a prescindere dalla natura chimica o numerica del supporto.
Mente – citiamo liberamente dal testo – perché se da una parte la fotografia è un “messaggio senza codice” (Barthes), incapace di negare il vero, è tuttavia capace di “affermare il falso”.
Mente perché ogni meccanismo è una “volontà congelata” (Flusser) che porta con sé l’ “inconscio tecnologico” (Vaccari) del macro-contesto culturale di produzione. Mente perché ogni “immagine negata” (non scattata) è una rimozione consciamente o inconsciamente intenzionale della continuità del reale. Mente perché ogni contesto produce generi e stereotipi che condizionano inevitabilmente la produzione di immagini. Mente perché taglio, grana, rapporti prospettici, illuminazione e messa in scena sono forme di alterazione della realtà, attraverso lo specifico tecnico del mezzo. Mente perché il congelamento fotografico trasforma un istante – transitorio per definizione – in un monumento infinitamente persistente. Mente per le manomissioni intenzionali come per quelle in buona fede. Mente per il modo, la sequenza, il contesto, con cui viene presentata. Mente perché non esiste uno “sguardo aborigeno”, vergine da condizionamenti individuali e culturali nell’atto stesso del ricevere l’immagine.
La fotografia – in sintesi – è un “alibi”, uno strumento con cui “produciamo immagini che giustificano a posteriori le nostre precarie convinzioni sul mondo”.
E facciamo questo per la nostra natura ludens, o perché ne traiamo un vantaggio, o perché desideriamo essere rassicurati riconducendo le immagini alle nostre aspettative. In buona sintesi perché “preferiamo le immagini alla realtà” (Levi Strauss).
La fotografia è dunque una “Cassandra” contemporanea, che “vede ancor più della prima”, ma – a differenza dell’antenata – “non è affatto sicura di quel che vede”, nonostante la società positiva le abbia assegnato il “compito, negato per secoli alle altre arti, di fornire le prove che il mondo è davvero come lo vediamo”.
Che fare dunque di questa nuova e speculare “anti-Cassandra”, di questo strumento sfuggente – per la sua natura tecnica e tecnologica – e soggetto, nonostante le aspettative di adesione al reale, ad essere veicolo di mistificazione conscia o inconscia, ben intenzionata o in cattiva fede? Dobbiamo rivendicarne ingenuamente la purezza, l’”immacolata percezione” – si domanda con spiritoso gioco di parole – oppure ripudiarla come una traditrice?
L’inganno è la caratteristica di chi “gioca la sua partita con l’astuzia perché è lo strumento migliore che possiede per raggiungere i suoi scopi”. Ma ingannare non è tradire: il tradimento è il gesto “vile di chi colpisce un amico che lo ama e si fida di lui”. Il cavallo di Troia non è il bacio di Giuda, parafrasando Fontcuberta.
Questo è l’unico caso in cui la fotografia commette un peccato mortale, l’unico imperdonabile: quando pronuncia intenzionalmente e proditoriamente una “falsa testimonianza”.
Alla fotografia, dunque, non si può chiedere “più di quanto sia in grado di dare”. È una “mentitrice incallita obbligata a dire almeno una porzione di verità se interrogata nel modo giusto”. Se trattata con gentilezza, la fotografia regala “piccole verità non richieste”. Questo tocco, “questo residuo non intenzionale è il vero specifico fotografico”. Un “accumulo marginale e preterintenzionale di verità, insensibile alle connotazioni imposte dall’esterno, il prodigio della fotografia”.
La fotografia è dunque un’”icona indicale”, un ossimoro semiotico che condanna l’immagine fotografica ad una Terra di Mezzo fra il documento e la picture. Ma proprio in questa sospensione la fotografia trova la forza di straordinaria – forse la più straordinaria – metafora della modernità.
Fluidificata e liberata dalle polarizzazioni storiche, la modernità non è per estremismi “iconoduli” né “iconoclasti”, ma per chi è capace di “ascoltare attentamente il canto delle sirene, [rimanendo] saldamente legato all’albero maestro della nave”. Per chi – sintetizza l’autore – è capace di riconoscere le bugie, usarle come strumento di analisi, misurarne il livello, contrattare laicamente e in maniera cosciente la verità all’interno della triade autore-fruitore-contesto.
La riflessione sulla mendacia del vero fotografico è per Smargiassi una ricca occasione di esercizio delle capacità critiche, di sviluppo di una complessa forma di consapevolezza in grado di dialogare con la multiforme e cangiante realtà contemporanea: “la fiducia nella verità ontologica della fotografia, quella ormai è demolita per sempre. È dunque l’ora di trasferire l’onere della verità dalle spalle deboli del medium alla razionalità forte del fruitore, che è l’autentico costruttore del significato dell’immagine, e lo è tanto più efficacemente quanto più è consapevole di esserlo”.
*Nota del redattore: con questo breve testo si è tentato di sintetizzare un volume denso e ampio, cercando – per quanto possibile – di non sacrificarne la complessità. Coscienti della inevitabile riduttività dell’operazione, si è provato a mantenere la sequenza, le argomentazioni e gli spunti fondamentali, le riflessioni finali, rielaborandole liberamente nella forma; si spera opportunamente nel contenuto.
Tra virgolette sono riportate le citazioni dirette dall’autore; laddove invece provengano da altri autori ripresi dal testo il nome è indicato fra parentesi; in corsivo sono indicati concetti che, anche se non espressi specificamente in quella forma, sono presenti nel testo.
Il libro:
Michele Smargiassi
Un’autentica bugia: la fotografia, il vero, il falso
Contrasto, 2009
7 dicembre 2018