Martino Marangoni – “Rebuilding my days in New York, 1959-2018”

di Dario Orlandi
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Nel suo ultimo libro, edito da The Eriskay Connection (coedizione italiana Postcart), Martino Marangoni ripercorre il suo rapporto con la metropoli americana iniziato negli anni Cinquanta e mai interrotto.
Italo-statunitense, Marangoni ha scoperto New York da bambino, esplorandola con una Kodak Brownie. Vi ha fatto ritorno ventenne per un trimestre di studio alla Pratt University che poi è diventato un triennio e il lavoro di un vita.
Fotografo, curatore, docente di fotografia, Marangoni ha formato generazioni di fotografi italiani e stranieri nella sua Fondazione Studio di Firenze. Autore, ha esposto in prestigiose sedi italiane e internazionali.
Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la sua New York.

1959-1964

Il libro si apre con i primi scatti che hai realizzato giovanissimo con una Kodak Brownie. Nonostante la precocità delle fotografie, trovi ancora oggi qualcosa di te in quelle immagini?
Sono foto che ho fatto io, quindi sono parte della mia storia. L’unica differenza è che allora ero una “tabula rasa”, non sapevo niente di storia e di tecnica della fotografia. Forse quindi, paradossalmente, quelle immagini mi rappresentano più delle altre!

Mi interessa il rapporto fra conoscenza e istinto nel processo creativo. A volte più uno sa, più si autolimita. A volte l’istinto primario è quello più profondo e più vero… Quando rivedi quei primi scatti, pensi che quel modo di guardare sia rimasto nella tua fotografia successiva?
Una fotografia è un po’ come puntare il dito verso ciò che vedi e che colpisce il tuo animo. È un po’ come dire “Wow”! Guarda quello!”; che sia un grattacielo, un albero, una persona, quando fai una fotografia è perché pensi: “Guarda cosa c’è davanti a me! Lo voglio catturare!”. La mia risposta a quell’istante è stata quell’immagine.

Nei primi lavori adulti hai giocato con la fotografia di strada, sperimentando soluzioni stilistiche differenti che convivono armoniosamente nelle sequenze del libro: dalle geometrie di immagini dall’alto, alle tensioni grandangolari di veloci sguardi stradali, al racconto della società nella sua vita quotidiana: un mosaico variegato, ma coerente. Lo stile è un limite dal quale gli autori devono sapersi liberare per inventarne un altro generato dalla mescolanza degli stili?
Non credo che esista una regola valida per  tutti. Trovo limitante cercare di semplificare la questione dello stile dicendo ciò che è giusto e sbagliato: in certi casi i lavori seriali funzionano perché hanno necessità di un approccio coerente e costante, ma questa non può diventare l’unica maniera, specie se poi non si raggiunge il pubblico con un messaggio o un’emozione. Tutto dipende dal risultato.
La scelta, nel mio libro, di mescolare generi dipende dal desiderio di descrivere un lungo percorso, una specie di viaggio nel tempo come nei film di David Lynch: saltare dal passato al futuro per confondere, per rendere la narrazione più interessante e contemporanea.

1970s

Negli anni Ottanta con il passaggio al medio formato il tuo linguaggio prende una direzione più meditata, fatta di vedute ampie con presenze umane minimali. Come cambia la tua percezione della città vista con un decennio in più alle spalle e con un mezzo differente?
In quel periodo ho cominciato a lavorare su commissioni di fotografia di paesaggio e ho sviluppato un’attenzione maggiore verso l’analisi del territorio. Con il medio formato ho acquisito un punto di vista più distaccato, lavorando più lentamente.
A New York, di conseguenza, mi sono concentrato su questo modo di guardare, anche perché il clima umano della città in quegli anni mi interessava meno; New York era cambiata. I miei soggetti diventano gli edifici, per i quali mi occorrevano punti di vista rialzati e più distanti.

1980s

Nelle tue immagini i grattacieli si riflettono l’uno nell’altro: un caleidoscopio infinito, una bella metafora visuale di una città senza fine. La tua New York è in continua trasformazione, vigorosa e vibrante di luce metallica, di cambiamento; molto diversa dal  “Nonni’s Paradiso” così vincolato alle cadenze cicliche delle stagioni…
La motivazione delle mie immagini è sempre autobiografica, quelli di cui parli sono i poli della mia identità familiare. I miei genitori erano uno di Firenze e l’altro di New York, nella mia vita ci sono sempre state due realtà contrapposte che ho dovuto cercare di conciliare, non solo dal punto di vista culturale, ma anche geografico: da una parte la campagna fra gli ulivi, dall’altra i grattacieli. Anche la mia attività fotografica è nata fra questi due poli: ho cominciato fra gli ulivi e ho continuato per tutta la vita, lo stesso vale per New York.

1980s

Il World Trade Center: la costruzione di un mito, la sua distruzione per mano del terrorismo, la rinascita dalle proprie ceneri; una sorta di araba fenice contemporanea. Com’è cambiata la percezione che i newyorkesi hanno di sé e della città attraverso l’esperienza di questo tragico evento?
La città cambia continuamente: cambiano le relazioni fra la città e le persone, fra le persone stesse. Non esiste il newyorkese: ci sono persone che vivono a New York. Alcuni sono lì da 100 anni, qualcuno da 10; anche mio padre, arrivato là nel 1936, entro pochissimo tempo divenne un newyorkese. Questa è la capacità inclusiva e accogliente degli Stati Uniti, di New York in particolare. Quello che accomuna i newyorkesi è il grande amore per la città, la capacità di interagire e integrarsi, di comunicare e stare insieme accettando con grande apertura le persone che arrivano. È una città durissima, se vuoi restare devi diventare determinato e lavorare tantissimo; c’è tuttavia un forte senso di umanità, di amore per la città e per il vivere comune. Durante l’attacco alle Torri ho provato grande ammirazione per il modo composto, maturo e civile di partecipare al dolore; è stato commovente vedere come la città ha reagito in maniera generosa, sorprendentemente tranquilla: non ho mai visto scene di panico.

Sept. 11, 2001, 8:46 am

A distanza di 20 anni la città è cambiata perché NYC cambia sempre, oppure c’è un prima e un dopo le Torri Gemelle?In tutto il mondo c’è un prima e un dopo le Torri Gemelle, è un evento cardine della storia dell’umanità che ha cambiato la storia contemporanea. New York però non si è fatta intimidire, ha reagito, è andata avanti. Anzi, è maturata! Ritengo che quello che è stato costruito adesso sia di gran lunga più bello e vivibile delle costruzioni grigie degli anni Settanta, simbolo esclusivo del potere economico. Adesso ci sono un parco, il Memoriale ai caduti, la stazione di Calatrava, luoghi di incontro e di passaggio; la città ha colto l’opportunità di trasformarsi, diventando un posto più civile e inclusivo.

Il tuo lavoro è l’esperienza di una città che è in parte tua, ma non completamente, una città nella quale ritorni periodicamente. Nel libro scrivi: “Every year I look forward to my next trip, anxious to see all that has changed in the skyline and in the street life. […] Would I feel the same way if I actually lived there? Probably not.” Che significa appartenere a due città? Avere due radici o non averne nessuna?
Questo è sempre stato il destino della mia vita. Anche quando ero ragazzino a scuola mi vedevano come uno straniero perché vestivo diversamente con gli abiti che mi mandano i nonni americani, oppure perché commettevo alcuni errori nel parlare, tipici degli stranieri. Nel mio vivere le culture dei due Paesi ho dovuto affrontare alcune difficoltà, sia qui che là, perché hai un punto di vista basato su due mondi diversi e salti dall’uno all’altro. È certamente una ricchezza, penso di essere fortunato ad avere avuto questa possibilità; allo stesso tempo però questa condizione complica un po’ le cose

Dalla Brownie allo smartphone: nelle ultime immagini dei grattacieli hai ritrovato lo stesso sguardo stupito di te bambino, che a ben vedere non abbandona mai completamente i tuoi lavori…
La sperimentazione è sempre stata per me uno stimolo: passare dal bianco e nero al colore, cambiare formati, cambiare il modo di guardare nell’obiettivo, tutto questo fa parte della volontà di non rimanere vincolato ad un modo unico di costruire l’immagine. Cerco di raccontare l’emozione che provo nell’esplorare luoghi che mi meravigliano attraverso mezzi anch’essi in grado di stupirmi. Utilizzare una nuova macchina fotografica produce emozioni simili a quelle che prova un bambino quando esplora qualcosa di sconosciuto.

2018

Quindi cambiano le tecnologie, cambia il modo di guardare, ma non cambia la curiosità del gioco e della sperimentazione?
Esatto. Cambiare strumento ti obbliga a riformulare il tuo approccio col mondo esterno, ti impone di trattare il soggetto con rinnovato stupore. E io non voglio perdere la freschezza, la capacità di guardare con occhi puri.

 

 

Il libro:
Martino Marangoni
Rebuilding my days in New York, 1959-2018
the Eriskay Connection/Postcart, 2018

Fotografie: © Martino Marangoni

 

18 febbraio 2019

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