Le storie si cercano nuotando sott’acqua

© Claudio Corrivetti, 2020

Come redazione, si è a lungo discusso e riflettuto su quale poteva essere il nostro ruolo in questo tempo strano.

Siamo stati in ascolto, abbiamo preso parte in maniera più o meno diretta ad alcune delle molte iniziative che in questi mesi hanno interrogato la fotografia e il suo ruolo nella documentazione e nel racconto dell’emergenza che stiamo vivendo. Abbiamo infine deciso di provare, con questo editoriale, a tracciare una narrazione inedita, che fosse tanto soggettiva quanto, nel suo montaggio, corale e collettiva.

Come scriveva Gianni Rodari nella sua Grammatica della Fantasia, “le storie si cercano nuotando sott’acqua”; perché quando si getta un sasso in uno stagno la prima cosa che si vede sono le onde concentriche che si allargano sulla superficie dell’acqua, ma se si osserva più in profondità ci si accorge che gli “oggetti che se ne stavano ciascuno per conto proprio, nella sua pace o nel suo sonno, sono come richiamati in vita, obbligati a reagire, a entrare in rapporto fra loro”. Perché le storie più belle sono quelle che si nascondono sotto la superficie delle cose. E proprio quelle abbiamo voluto andare a cercare.

Abbiamo fatto partire una catena, ispirandoci al famoso gioco surrealista del cadavre exquis. Il caso ha deciso chi tra noi dovesse essere il primo a scrivere e a scegliere un fotografo al quale inviare il proprio testo chiedendogli di rispondere con un’immagine che con quel testo risuonasse e di inviarla, a sua volta, a un altro membro della redazione, a sua scelta. E così la catena è proseguita, fino all’ultimo tassello.

Il risultato è un intreccio di parole e immagini che si parlano e si interrogano a vicenda, superando i reciproci limiti, e che ci restituiscono una visione forse improbabile, sicuramente non convenzionale e libera, di un momento che resterà – e deve restare – a lungo nella nostra memoria collettiva.

 

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Quante volte, di fronte a un paesaggio o a uno scenario urbano, avrei voluto che le persone scomparissero, come d’incanto, per scattare una fotografia senza elementi di disturbo.

Il deserto e la desolazione dei giorni peggiori della pandemia mi hanno fatto rimpiangere quei pensieri. Nelle limitate uscite al di fuori del mio confinamento, mi ritrovavo di fronte a uno spazio irreale. Irriconoscibile, a soli #duecentometridacasa. Immersa nel silenzio, il dramma che si stava consumando da qualche parte, lontano da me, avvolta nel mio bozzolo di sicurezza, appariva come un incubo distante.

Alla prima sensazione di pace seguiva un senso di angoscia: quanto si presentava ai miei occhi non era una distesa libera e sconfinata, ma un vuoto che risuonava di assenza. Il silenzio assordante, rotto unicamente dall’urlo, continuo e straziante, delle sirene delle ambulanze mi riportava alla realtà, ricordandomi che spesso la vista, da sola, può essere ingannevole.

(DM)

 

Firenze, 19 aprile 2020. © Simone Donati

 

D’improvviso ogni certezza si è frantumata; tutto ciò che conoscevamo è apparso inconsistente, inappellabile. Allo stesso modo, le città e tutti i luoghi in cui le nostre vite erano sino ad allora transitate, hanno subito una trasformazione: da tourbillons esistenziali a deserti, immobili e silenti.

D’un tratto le nostre case sono diventate il nostro rifugio. Eppure, nelle strade qualcosa ancora si celava, fino a qualche giorno fa; certo, poco più che barlumi in dialogo con il grande vuoto, come in un palcoscenico in cui il ruolo attoriale ha assunto contorni metafisici e surreali, ove ogni luce, ogni ombra, ogni riflesso, pareva esprimere altro da sé.

Lo spazio delle città – spesso quelle la cui forma racconta storie molto antiche e che ritroviamo nella nostra memoria interiore –  ha originato inusitate cosmogonie, attraversate ancora da individui la cui identità, nascosta dalle mascherine e deviata dal distanziamento sociale, ha subito un distopico e perturbante fascino…

Chi sono? Volti ed espressioni noti, cari, divenuti estranei? Attraverso questi visi resi irriconoscibili, è noi o loro che osserviamo? E cosa scopriamo incrociando i loro sguardi? Siamo ancora in grado di riconoscere occhi che avremmo saputo descrivere, che ci avrebbero detto, in un istante, più di mille parole, e che ora, invece, sono la fragile parte nuda dinanzi a noi? Dovremo ricominciare a guardare l’altro da noi – e noi stessi – in modo differente per poterne cogliere le peculiarità?

È un mondo nuovo quello che abbiamo visto? È un’umanità sconosciuta ed inquietante quella che abbiamo scorto? O è solo la normalità – e quel che credevamo tale – ad aver decostruito le sue coordinate? È qualcosa intriso di qualcuno che dobbiamo imparare a conoscere nuovamente?

Cosa si può racchiudere in uno scatto?

(AI)

 

Dreaming, maggio 2020. © Francesco Zizola

 

“Cosimo era sull’elce. I rami si sbracciavano, alti ponti sopra la terra. Tirava un lieve vento; c’era sole. Il sole era tra le foglie, e noi per vedere Cosimo dovevamo farci schermo con la mano. Cosimo guardava il mondo dall’albero: ogni cosa, vista di lassù, era diversa, e questo era già un divertimento. Il viale aveva tutta un’altra prospettiva, e le aiole, le ortensie, le camelie, il tavolino di ferro per prendere il caffè in giardino. Più in là le chiome degli alberi si sfittivano e l’ortaglia digradava in piccoli campi a scala, sostenuti da muri di pietre; il dosso era scuro di oliveti, e, dietro, l’abitato d’Ombrosa sporgeva i suoi tetti di mattone sbiadito e ardesia, e ne spuntavano pennoni di bastimenti, là dove sotto c’era il porto. In fondo si stendeva il mare, alto d’orizzonte, ed un lento veliero vi passava.” (Italo Calvino, Il barone rampante)

In questo tempo strano abbiamo insegnato al piccolo Zeno una parola importante: fantasia. Gli abbiamo insegnato che con la fantasia si può andare dappertutto, anche quando si deve stare confinati in casa. Con lui e grazie a lui, abbiamo costruito un lessico nuovo, inseguito nuove narrazioni, osservato nuove relazioni tra la realtà e il sogno, tra il raggiungibile e l’inaccessibile.

(CR)

 

A sinistra: 2020 | a destra: 2015. © Martina Della Valle

 

Venne il momento dell’attesa e il tempo dispettoso si tramutò in un essere indefinito.
La distanza è incolmabile. Il viaggio impossibile da compiere. Barriere imposte ci dividono.

La mente non si placa alla perduta libertà, se non fosse che all’improvviso un’immagine colpisce lo sguardo e nuovi incontri e nuovi luoghi prendono forma nei pensieri.

Il viaggio intrapreso disvela desideri reconditi e paure inattese.
Fermi e immobili alla scrivania, il luogo da esplorare è familiare e sconosciuto al tempo stesso.

Pervasi dall’incertezza e impauriti dall’oscura profondità rocciosa, i pensieri vagano in luoghi ancestrali, riportandoci alle origini del nostro essere.

Ciò che si desidera, è ciò che per molto tempo abbiamo dato per scontato: gesti banali, incontri sperati, luoghi familiari e suoni già ascoltati, come quello delle foglie ballerine alla carezza del leggiadro vento di un pomeriggio di primavera.

Il tempo immobile inizia la sua danza, una sinfonia avvolge la selvatica vegetazione e profumi familiari ci donano il potere salvifico dell’immaginazione. Il viaggio compiuto “nelle profondità dell’immagine” ci ha insegnato la via per percorrere i nostri desideri e ci nutrirà fino al giorno in cui non assaporeremo di nuovo l’irripetibile bellezza di un banale momento quotidiano.

(CS)

 

Roma, aprile 2020. © Alex Majoli

 

Sanpietrini. Notte. Visione tetra, scura, ma forse non del tutto. Una luce illumina la via mostrando, forse, la via d’uscita.

Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie
(Giuseppe Ungaretti)

Mai come in questo periodo credo che una poesia fosse più appropriata per descrivere il nostro essere così “mortali”.

Mille sensazioni, mille stati d’animo così distanti tra loro.

Smarrimento. Il piacere del silenzio. Le mille dirette Instagram. Il vuoto degli spazi urbani. L’aria pura. La voglia di uscire. La mancanza del contatto umano. La diffidenza nei confronti degli altri. La mancanza di Libertà.

La libertà non è star sopra un albero
Non è neanche avere un’opinione
La libertà non è uno spazio libero
Libertà è partecipazione
(Giorgio Gaber)

E infine la rabbia. Tanta rabbia. La politica, gli interessi e mille interrogativi.

Ne usciremo migliori?

È inutile lasciare ai posteri una sentenza tutt’altro che ardua.

(ES)

 

USA, New York State, Kaaterskill Falls, 2012. © Alec Soth

 

Nell’oscurità la pienezza analogica della fotografia vacilla, il reale cede il posto alla indefinitezza dell’ombra che accenna i contorni del visibile senza svelarlo pienamente.

La mente affonda entro gli abissi del tuo sguardo buio – verrebbe di esclamare con Novalis – e tu sei riuscita misteriosa notte a rendere pallida e ordinariamente piatta la troppa luce del giorno, che tutto rivela e descrive senza lasciare spazio all’inquietudine e all’interrogazione.

Una tenebra profonda ci avvolge tutti ma continuiamo a credere di vivere nella luce, anche se è solo una parvenza di luce.

Il solo gesto di fotografare mi sembra malsano come se lo sguardo si fosse opacizzato, ritratto sempre più di fronte alla pienezza senza scampo del reale, alla distruzione del pianeta operata dall’uomo e alla sua restituzione in immagini. Come se, alla pari dei personaggi di Saramago, fossi diventata improvvisamente cieca, circondata da moltitudini di ciechi che vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono, da immagini che, pur mostrando, non rivelano.

Metafora di una umanità appesantita dalla colpa, che annaspa e sprofonda nelle tenebre, cercando una improbabile via di fuga; la pandemia ci ha costretti a volgere gli occhi all’interno, a chiederci di nuovo conto del nostro essere sulla terra.

Forse a scavare nelle pieghe del rimosso, ad interrogarci sulla responsabilità dello sguardo, sul senso del fotografare e della narrazione. Che per me, come nella poesia, sta nel riuscire a dialogare con un invisibile, anche terribile, che mentre è evocato si fa realtà, presenza, sguardo e pensiero. Forse cambiamento.

(DT)

 

Da “Tagli”, 2020. © Carmelo Bongiorno

 

Trasfigurazione di un volto cristallizzato in una situazione metafisica tra reale e irreale, fra la luce ed il profondo nero,
fra la Vita e la morte.
In una situazione di incredulità e incertezza.

“Ingessato” dall’impotenza di poter scegliere.

La bellezza e la perfezione che si sgretolano tagliati in mille pezzi ancora uniti, non sappiamo ancora per quanto.

Uno sguardo che tenta di comunicare ma è immobilizzato dall’oblìo di se stesso, uno sguardo che riflette l’universalità e la sovrannaturalità della situazione,
una sintesi dell’infinito che si espande
ma è contenuto nell’attimo del pensiero che lo rende una sola cosa.

E un gioco a due, fra l’osservatore ed il soggetto,
lo sguardo rimbalza fra se stesso e la comunicazione di se stesso
ma è uno sguardo gelido, ha perso la propria voglia o capacità di comunicare, ormai si lascia al volere dell’altro e si abbandona al destino
che un qualcun altro ha deciso per lui.

(PM)

 

Eleonora Hulsof, infermiera anestesista, al termine di un estenuante turno di lavoro durante l’emergenza Covid. Ospedale San Salvatore, Pesaro, 2020. © Alberto Giuliani

 

“Tutto l’universo obbedisce all’amore”

I segni innaturali, gravi, sulla pelle.
I volti trasfigurati da fatica, dolore e coraggio.
Gli occhi stanchi, intensi, sicuri. L’azzurro.
È di amore che voglio parlare.
In questo tempo avete amato? Siete stati amati?
Siete stati in grado di amare di più?
La sospensione del tempo.
Assenze. Paure. Riflessioni.
La vocazione all’oblio.
È stato facile guardarsi dentro e rivolgersi verso se stessi?

Ho scritto un biglietto e sopra c’era il senso della vita.
L’ho infilato in una bottiglia, di vetro trasparente
l’ho affidato al mare, c’era un delfino che l’ha portato lontano.
L’ho salutato con la mano.
Intorno il cielo, il vento, le api, le città, le molecole,
gli alberi, i corpi, il sangue, i rossi papaveri, i cani.

Era un tempo nuovo
fragile curva
eco del divenire.

Ma sopra ogni altra cosa.
È negli sguardi dei bambini che ho visto l’infinito.

(BB)

 

Domestica 5, 2020 © Silvia Camporesi

 

“Silenzio”

“Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio,
se tutti facessimo un po’ più di silenzio,
forse qualcosa potremmo capire…”
Ivo Salvini (Roberto Benigni) , 

Il silenzio è il volto nascosto di un bimbo, il gemito di un tarlo, il sussurro metallico che
riempie la notte.

Non si vede, il silenzio, mentre scende nei pertugi delle ore che ritornano uguali.
Si insinua, lento e avvolgente, come pece che goccia e riempie, si espande e sigilla.

I gesti diventano riti per dare forma al tempo. Giorno e notte si rincorrono come amanti,
sfumano l’uno nell’altra in un cerchio infinito.

Il sonno è pesante e profondo, riaffiorano ricordi antichi. Stretti in un abbraccio ideale, ci
scopriamo fragili e nudi.

Privati del rassicurante vocìo della vita, lasciamo scuse e pretesti, svaniscono i miti. Il
silenzio è un’eternità sospesa.

E dopo, all’aperto, il mondo mostra toni sbiaditi. Riparte in sordina, confuso e spaesato,
come uscendo dal buio alla luce.

La città è sospesa, i passanti smarriti. Non vibrano voci, non risuonano risa serali; sfuggono
cauti gli sguardi velati.

Eppure, nel silenzio risuona una voce profonda, si distende l’ascolto, si scorgono mete
impensate.
È nel silenzio che s’impara a sentire.

(DO)

 

Milano, 4 aprile 2020. La città deserta dutrante l’emergenza coronavirus. In Corso Vittorio Emanuele, un uomo legge un libro. © Alessandro Grassani

 

11 giugno 2020

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