La fotografia secondo Hitchcock

Alfred Hitchock sul set del film "Gli Uccelli" (1963).
di Daniela Mericio
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La cosa che più mi colpisce e mi emoziona di Hitchcock è la sua capacità di pensare visivamente, senza dover fare ricorso alle parole. […] La sua capacità unica, straordinaria, inimitabile, di comunicare ed emozionarci usando semplicemente e solo le immagini.
(Gianni Canova, Alfred Hitchock. Il cinema ai bordi del nulla, Skira, 2019)

 

Evidenziava questo aspetto già François Truffaut ne Il cinema secondo Hitchcock, in cui è raccolta l’intervista del regista francese al suo collega britannico, svoltasi negli studi della Universal a Hollywood nel corso di un’intera settimana. Il libro, pubblicato nel 1966, è una dichiarazione d’amore nei confronti del maestro del brivido, in un’epoca in cui la critica era nei suoi confronti sprezzante e severa. Truffaut sottolinea come molti cineasti deleghino la narrazione a un fiume di parole, affidando dettagli essenziali per la comprensione della trama ai dialoghi tra i personaggi; una girandola di vocaboli, uditi ma non visualizzati dallo spettatore, il quale perde il filo, si distrae, mentre l’illusione di essere dentro lo scorrere degli avvenimenti filmici si spezza.

In virtù di quella che definisce una legge essenziale del cinema, Truffaut conclude: “Tutto ciò che viene detto invece di essere mostrato è perso per il pubblico” ed opera un confronto fra l’inadeguatezza dei registi della parola e la maestria di Hitchcock, insuperabile nel farci comprendere la realtà di una situazione attraverso un’inquadratura, un accostamento di fotogrammi o un semplice gioco di sguardi. I dialoghi essenziali, allusivi, e l’assenza di passaggi di raccordo inutili nella narrazione, fanno sì che i film di Hitchcock siano “senza buchi macchie” come diceva egli stesso; pellicole in cui non ci sono “momenti privilegiati”, nelle quali ogni attimo è significativo, visivamente eloquente. Il che consente di mantenere desta l’attenzione e alta la tensione emotiva, creando la ben nota, inimitabile suspense.

“Gli Uccelli” (1963). Tippi Hedren.

Al di là della maniacale cura dell’immagine, delle inquadrature che avrebbero da insegnare qualcosa ai migliori fotografi, che c’entra Hitchcock con la fotografia? Nel libro intervista di Truffaut, “Hitch” rivela: “Quando studiavo alla scuola di ingegneria, il disegno era la mia materia preferita, poi veniva la fotografia”. E proprio attraverso il disegno è arrivato al cinema: prima di passare dietro la macchina da presa disegnava titoli e didascalie di film muti – negli anni Venti non c’era ancora il sonoro – per una casa di produzione angloamericana (la Famous Players-Lasky). Il regista inglese afferma, inoltre, di essere stato, fin da ragazzo, affascinato dalla fotografia nei film americani, superiori, secondo lui, a quelli della madrepatria. Non risultano, tuttavia, scatti di pregio realizzati da Sir Alfred Hitchcock, e infatti questo articolo non era previsto. Il caso, però, ha voluto che fosse allestita – fino al gennaio 2021, all’Arengario di Monza – una mostra fotografica a lui dedicata, a quarant’anni dalla sua scomparsa, che mi ha spinta a rivedere alcuni film e a rileggere qualcosa su questo geniale autore e comunicatore.

L’esposizione, curata da Gianni Canova, racconta il cinema attraverso le fotografie, conducendoci per mano, in modo leggero e divertente, nell’esplorazione dell’universo hitchcockiano. In mostra scatti di scena e di backstage, realizzati durante la lavorazione dei film della Universal Pictures, la major con cui “Hitch” incrociò il suo destino dopo essersi trasferito a Hollywood. Le 70 fotografie, di dimensione identica e piuttosto ridotta, sono disposte in successione, perfettamente allineate, suddivise per film. È come sfogliare un album senza dover girare le pagine, come se le immagini fossero fotogrammi di una pellicola e potessimo soffermarci ad analizzarli, rievocando quanto già visto sullo schermo, operando collegamenti e sbirciando, di tanto in tanto, sul set. L’allestimento ricorda un cartoon, un fumetto che con ironia ricostruisce il “personaggio Hitchcock”, quello che è riuscito ad affascinare milioni di spettatori non solo in virtù dei suoi film ma anche grazie alla personalità, all’umorismo venato di inquietudine e alla capacità di scandagliare l’animo umano con una punta di sarcasmo e commiserazione.

Alfred Hitchcock sul set di “Psycho” (1960).

Le ricche didascalie alternano dettagli tecnici, informazioni storiche, curiosità, retroscena; sono affiancate da video in cui Gianni Canova, con profonda semplicità e brioso acume, racconta l’uomo, il regista, l’arte e lo stile, soffermandosi sulla forza eversiva dello sguardo hitchockiano, che vede al di là del milieu borghese in cui sono immerse le sue pellicole: “Hitchcock ci ha rivelato che il mondo ordinato in cui in cui credevamo di vivere non è che un caos informe e che l’ordine apparente è solo una maschera destinata incessantemente a sgretolarsi”. Nonostante una “critica ottusa” lo abbia considerato per anni “un adoratore di giocattoli inutili e pericolosi, un ciccione puritano e complessato, ossessionato dal delitto, dal sangue e dal sesso”. Finché i maestri della Nouvelle Vague francese non hanno spostato la prospettiva, definendolo “uno dei più grandi creatori di forme di tutto il Novecento” (Claude Chabrol ed Eric Rohmer) o annoverandolo tra gli “artisti inquieti” la cui missione è “dividere con noi le loro ossessioni”, involontariamente aiutandoci “a conoscerci meglio” (Truffaut).

Nella mostra possiamo approfondire i retroscena di alcuni tra i più celebri ed amati film del regista inglese, pellicole divenute di culto e che per anni hanno fatto scuola: La donna che visse due volte (1957), fitto di mistero, ambiguità e vertigini, Psycho (1960) e la personalità tormentata di Norman Bates, Gli uccelli (1963) che introdusse molte novità nel campo degli effetti speciali e dei trucchi di ripresa; e ancora L’ombra del dubbio (1943), Nodo alla gola (1948), Marnie (1964), fino all’ultima opera del regista, Complotto di famiglia (1976). E naturalmente, La finestra sul cortile (1954), con un irresistibile James Stewart e una sofisticata Grace Kelly. Campione di incassi al botteghino, su questo film e sulle sue implicazioni teoriche, concettuali e filosofiche i critici hanno scritto svariati saggi, trovando ogni volta nuove sfumature da analizzare. Maurizio De Bonis (La vertigine dello sguardo, Postcart, 2013) lo colloca “in un territorio molto più vasto rispetto a quello del cinema, un territorio che riguarda le arti visive del Novecento nel loro complesso” definendolo, insieme a Blow up di Antonioni, un passaggio fondamentale nella riflessione teorica sulla fotografia.

“La finestra sul cortile” (1954). James Stewart.

Protagonista è un reporter d’assalto, Jeff, immobilizzato a causa di una gamba rotta, frutto di un incidente sul lavoro. Dal suo minuscolo appartamento newyorkese che, insieme a molti altri, si affaccia su un cortile interno, Jeff trascorre la convalescenza osservando dirimpettai e vicini di casa. Con l’ausilio di un potente teleobiettivo – e di un binocolo – contempla dalla sua finestra l’interno di altre abitazioni e il dispiegarsi di un caleidoscopio di esistenze nella loro quotidianità, finché, in tanto osservare, si rende conto che è stato commesso un delitto.

Il film è disseminato di allusioni e cliché riguardanti la fotografia e la figura del fotoreporter. “Fotografo squattrinato che non ha mai un dollaro in tasca” si definisce Jeff, mentre la raffinata e modaiola fidanzata lo apostrofa: “Che cosa ci trovi a viaggiare da un posto all’altro facendo fotografie? E come essere un turista in continua vacanza […] Ed è ridicolo che possa essere fatto da un piccolo gruppo esclusivo di gente eletta”. Jeff non agisce, guarda soltanto, e quando viene scoperto dall’omicida si difende a colpi di flash, utilizzando lo strumento di lavoro come un’arma. La curiosa governante definisce la macchina fotografica un “buco di serratura portatile” e il fotografo un voyeur, uno “spione”. Tuttavia, è evidente che Jeff arriva a scoprire l’assassino grazie a un’azione combinata di mente e occhi, vista e pensiero: è come se il regista suggerisse che lo sguardo, sebbene coadiuvato da un dispositivo tecnologico, non basta per interpretare e decodificare il mondo se non è supportato dalle capacità intellettive.

Che c’entra Hitchcock con la fotografia? Nulla, se non fosse che, sempre citando De Bonis, La finestra sul cortile va interpretato come “un saggio meta-cinematografico sul senso del vedere, sul valore della rappresentazione tecnologica della realtà e sulla forte compenetrazione tra dispositivo ottico, occhio e capacità di elaborazione della mente. Solo attivando questa funzione (non misurabile) ci suggerisce con acutezza di ragionamento Alfred Hitchcock, si riuscirà a comprendere la vera natura della disciplina fotografica e la sua relazione con la sfera della realtà”.

 

Fotografie: © Universal Pictures

 

ALFRED HITCHCOCK. Nei film della Universal Pictures
a cura di Gianni Canova

Arengario
Piazza Roma, Monza
9 ottobre 2020 – 10 gennaio 2021

Mer 14:00 – 18:00
Gio e Ven 10:00 – 13:00/ 14:00 – 18:00
Sab, dom festivi: 10:00 – 18:00

La mostra è temporaneamente chiusa al pubblico a causa dell’emergenza Covid-19. Per informazioni e approfondimenti consultare il sito web dell’organizzatore.


10 novembre 2020

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