Confini di guerra: cosa avete visto che noi non potremmo?

di Azzurra Immediato
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Confine
S. m. [dal lat. confine, neutro dell’agg. confinis «confinante», comp. di con- e del tema di finire «delimitare»]. 1. a. Limite di un territorio. b. Limite di una regione geografica o di uno stato; zona di transizione in cui scompaiono le caratteristiche individuanti di una regione e cominciano quelle differenzianti: c. naturale, quello che s’identifica, più o meno, con linee prestabilite dalla natura, quali coste, crinali di montagna, fiumi, ecc.; c. politico, quello stabilito per convenzione tra governi, che separa due organismi politici mediante una linea di confine la quale, quando è possibile, è costituita da una fascia disabitata con funzioni di isolamento. Spesso al plurale.: i confini; nel territorio: portarono la guerra nei c. stessi del…

Limes ‹lìmes›
S. m., lat. (pl. limĭtes ‹lìmites›). – Termine corrispondente all’ital. limite, usato nella forma originaria latina con riferimento all’antica Roma, dove ebbe dapprima il sign. di «sentiero, strada» che formava il confine tra due campi o che attraversava un campo; all’inizio dell’età imperiale, strada militare fortificata e poi l’insieme delle fortificazioni poste ai confini dell’impero, dove costituivano, più che una linea di difesa, una linea di attacco per la penetrazione nel territorio nemico, più tardi, il limes diventa linea di difesa.

Cos’è davvero un confine? Una barriera, una protezione, un simbolo plurimo di affermazione? E un limite? Qualcosa da non oltrepassare? Una fortificazione? Il paradigma di una estromissione? E perché in afferenza con i concetti di limite e confine sussiste imperituramente l’idea di scontro, di guerra? Anche quando i termini delle dinamiche antropologiche prevederebbero lo sviluppo, l’espansione, la crescita? Si è tenuti, da sempre, a pensare che oltre ogni confine ci sia l’ignoto, una dimensione non ancora conquistata – più che non ancora scoperta – e se è insito nella natura umana scoprire per acquisire, ecco che ogni luogo della Terra – ed oltre – è destinato ad entrare nelle mire espansionistiche dell’umanità, un sé collettivo piuttosto ristretto, a dire il vero, che accomuna e allontana, al contempo, una demarcazione decretante un rapporto di appartenenza ed estromissione tra gli elementi interni ed esterni ad essa.

Se non è questo il luogo per costruire una analisi storica e geopolitica – che lasciamo agli esperti o ai millantatori del media – certamente il Photolux Magazine può tentare di gettare uno sguardo su cosa accade ed è accaduto a Est, in Ucraina e nei Paesi limitrofi, laddove fotografi, fotografe e reporter hanno tracciato una mappa per immagini di uno stravolgimento apparso come un corto circuito nella perimetrazione dei confini geografici acquisiti dagli anni ’90.

Abbiamo chiesto ad alcuni di loro di raccontare ciò che hanno visto attraverso uno singolo scatto. One Shot. Uno scatto significativo, che avesse un valore peculiare all’interno della loro indagine e che potesse mostrare, a noi, sicuri dietro il confine dei nostri portoni, cosa non riusciamo a comprendere, vedere, osservare, leggere di questa guerra.

Caimi & Piccinni –  Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni – Simone Cargnoni, Francesco Faraci, Francesco Malavolta e Alessandro Penso sono i protagonisti di questo raccontare dal confine, ognuno con il proprio linguaggio, la propria grammatica e la libertà di esprimere anche con le parole un pensiero afferente allo scatto. Un itinerario complesso che non ha velleità di intervista ma di diario corale in cui visioni e percezioni si innervano in una Storia così in fieri da apparire incomprensibile, distante ma paurosamente vicina.

Cosa hanno visto che noi non potremmo vedere?

Viktoria, 38 anni, di Hostomel’, a 20 km da Kiev, sede di un hub internazionale di aerei cargo, molto vicino a Irpin e Bucha. Insegnante di inglese, è fuggita con i suoi figli, Sonya di quattordici anni e Ilia di otto © Caimi&Piccinni

Caimi&Piccinni
Ciò che non possiamo vedere è in realtà sempre davanti ai nostri occhi. È la storia stessa di ogni essere umano. Entrare in contatto e avere un rapporto personale di fiducia reciproca con ogni singolo soggetto della storia raccontata è per noi la chiave per ottenere un quadro completo in modo più accurato e senza filtri. Spersonalizzare le storie, per raccontare solo uno scenario di fondo generale, significherebbe perdere di precisione insieme alla possibilità di stabilire un legame tra gli eventi e il pubblico, fondamentale per aumentare la consapevolezza. Guerre, migrazioni, catastrofi ambientali e questioni religiose sono tutti eventi che cambiano e plasmano il mondo, in cui l’essere umano gioca un ruolo definitivo e attivo. Le testimonianze di ogni persona sono quelle da raccogliere, simboliche di tutta la storia e così vicine alla nostra stessa vita. Durante il massiccio esodo di persone causato dalla guerra in Ucraina, abbiamo raccolto le storie di donne fuggite dal conflitto che stava accadendo proprio alle loro porte. Queste donne, spesso con i loro figli, hanno trovato rifugio appena oltre il confine polacco, dopo un viaggio lungo e pericoloso per la vita. Riportiamo la storia di Viktoria, il suo ritratto e un oggetto che ha portato con sé durante la fuga. Una delle tante storie raccolte, ma unica e simbolica come tutte le altre che abbiamo avuto modo di documentare.

Sono riuscita a partire appena in tempo. Ora è molto complicato uscire da lì. La mia casa è stata occupata da soldati russi da come mi hanno informato i miei vicini. Sono scappata sotto le bombe, quindi non ho potuto nemmeno prendere i miei documenti, né i miei né quelli dei miei figli. L’unica cosa che ho preso da casa è stato un coltello per proteggere me e i miei figli. Quando abbiamo deciso di scappare siamo andati a prendere la macchina ma non si è avviata. La benzina era finita. Abbiamo chiesto un passaggio a un vicino e ci ha accompagnati a Vasilkov dove abbiamo dormito una notte a casa di un amico. Ma hanno iniziato a bombardare anche lì, quindi siamo dovuti scappare di nuovo, sette di noi, più un gatto, in una macchina. Abbiamo soggiornato per cinque giorni a Bila Tserkva, a 140 km da Kyiv. Lì eravamo in pessime condizioni, faceva molto freddo senza acqua corrente. Eravamo in una casetta semiabbandonata in un paesino di campagna. Non conoscevo nessuno, ma gli abitanti del villaggio ci hanno aiutato il più possibile portandoci patate e carote. Raccoglievamo legna nella foresta per accendere un fuoco, altrimenti non ce l’avremmo fatta per tutta la notte. A questo punto gli amici con cui siamo arrivati ​​in questo villaggio hanno deciso di andare nei Carpazi, ma non conoscevamo nessuno, invece siamo stati accompagnati a Vilnizia. Lì abbiamo dormito per due notti a casa di un amico di mio fratello. Da lì abbiamo preso un treno per Leopoli. Mia madre era ancora a Kyiv, alla fine ha deciso di raggiungerci con un’amica, quindi ci siamo incontrati a Leopoli. Da Vinizia a Leopoli abbiamo viaggiato per otto ore in treno, senza acqua, senza cibo, senza servizi igienici. Faceva molto caldo. I bambini piangevano. A Leopoli abbiamo aspettato quattro ore prima di salire sul treno per Przemysl in Polonia. Da Leopoli a Przemysl ci sono volute nove ore di treno, fermandosi molte volte, ma le porte sono rimaste chiuse. Una volta arrivati ​​alla stazione polacca abbiamo dovuto aspettare in treno altre due ore. Guarda queste foto che ho fatto, sono della macelleria del mio quartiere il 24 febbraio, giorno dello scoppio della guerra. Gli scaffali sono completamente vuoti, così come i supermercati. Questa è la foto dell’attentato che ho visto dalla mia finestra e questa è la foto della casa del mio vicino. Hanno colpito l’edificio di fronte al mio. Dalle informazioni che ho ricevuto dalle persone che sono rimaste nel mio quartiere, ho appreso che i soldati russi sequestravano i cellulari delle donne. Mi hanno anche detto che i soldati hanno chiesto a un vecchio di preparare da mangiare per loro e quando ha rifiutato lo hanno ucciso. Ora io e i miei figli abbiamo deciso di stabilirci a Stettino, in Polonia, dove vive la mia madrina. Inoltre non è molto lontano dall’Ucraina. Sono divorziata ma ora ho un ragazzo. È in guerra. In realtà è in guerra dal 2014. Ora è stato richiamato a Donetsk. Cerchiamo di parlare ogni giorno. Mi parla di molte perdite umane. So che quando parliamo potrebbe essere l’ultima volta. Il mio ex marito è tunisino. È fuggito da Kyiv il giorno prima dello scoppio della guerra. Non ho mai pensato per un momento di raggiungerlo lì, in Tunisia. Anche se siamo in condizioni civili, non voglio rischiare che la sua famiglia mi impedisca di riportare i miei figli in Ucraina, una volta lì. Chissà cosa potrebbe passare per la loro mente. Mentre eravamo ancora in casa e poi dall’auto, mentre scappavamo, abbiamo visto le scie luminose dei missili e i bagliori delle bombe che cadevano. Tuttavia, cerco di proteggere i miei figli il più possibile dalle notizie. Naturalmente, sono parzialmente consapevoli di ciò che sta accadendo. quando siamo arrivati a Leopoli, ho visto la meraviglia nei loro occhi. Hanno visto gente che camminava per le strade, negozi vicino alla stazione dei treni aperti, donne per le strade truccate… Sembrava di vivere di nuovo. Poi quando siamo scesi alla stazione di Przemysl, qui in Polonia, hanno visto molti soldati e ci hanno chiesto se questo fosse davvero un posto sicuro o se c’era guerra anche qui. Ho spiegato che questi soldati erano qui per prendersi cura di noi. Per me la cosa più importante è proteggerli.

Koresten, Ucraina © Simone Cargnoni

Simone Cargnoni
La cosa che mi ha più stupito in Ucraina è la calma delle persone. Sono stato a Korosten per una settimana, 140 km a ovest di Kyiv e 50 a sud del confine con la Bielorussia. Ci sono arrivato il trentesimo  giorno di guerra in furgone con Julia, una ragazza ucraina che fa la spola dalla Polonia alla sua città portando cibo, medicine e beni di prima necessità. Allo scoppio del conflitto ha lasciato tre dei suoi quattro figli in Polonia al sicuro in un campo d’accoglienza, il quarto, di 16 anni, è voluto restare col padre a Korosten. Il marito di Julia è un Pastore Battista e gestisce la distribuzione degli aiuti nella loro città, tramite la rete della chiesa. La cittadina è stata bombardata in maniera non grave, è un punto strategico di collegamento dal confine nord verso Kyiv. La calma di cui parlavo è quella con cui Julia mi ha raccontato questa storia e il fatto che ci siano molte altre donne che come lei hanno portato i figli in Polonia per poi tornare a fare la spola coi furgoni per portare cibo e farmaci, sia ai civili sia ai militari. Ho capito in un secondo momento perché per lei fosse così normale questa cosa: la faceva già prima dello scoppio della guerra, solo non dalla Polonia all’Ucraina. La faceva, insieme ad altre donne della chiesa, una volta al mese dalla loro città verso il Donbass. La stessa calma, quasi pragmatismo, l’ho trovata un po’ in tutti, nella modalità di affrontare le sirene che avvertono di un possibile bombardamento: se non stai facendo nulla ti sposti verso un rifugio, se stai facendo qualcosa continui a fare quel che stai facendo. Che può essere qualsiasi cosa. Ho visto anziani continuare le compere al supermercato perché era stato chiuso per tre settimane e volevano prendersi il tempo di scegliere la spesa da fare. Adolescenti giocare a basket e non accennare minimamente a smettere al suono delle sirene. Donne e uomini ritrovarsi nella piazza centrale della città per pregare per la fine della guerra e, al suono delle sirene, limitarsi ad alzare un po’ più la voce che veniva coperta dai rumori degli altoparlanti mentre loro, una trentina, stavano in cerchio in una piazza aperta, di giorno, ben visibili. A onor del vero non hanno pregato per la fine in sé della guerra ma per la vittoria dell’Ucraina. Questa cosa che io definisco ‘calma’ l’ho vista anche in molti militari volontari, soprattutto giovani poco più che ventenni, che sembrano entrati immediatamente in uno schema mentale per il quale svolgono il proprio compito militare come se fosse il turno di un qualsiasi lavoro che facevano prima. Poi quando possono rientrano a casa e fanno le cose normali di sempre; come Sasha, il militare dell’esercito volontario ritratto nella fotografia, che la domenica mattina ha raggiunto sua madre per seguire la messa insieme nella Chiesa Battista di Korosten. Finita la messa è tornato fuori città a presidiare uno dei tanti posti di blocco dislocati lungo le vie  di comunicazione.

Przemysl, Polonia © Francesco Faraci

Francesco Faraci
[dal diario che Faraci ha scritto nei giorni in cui è stato al confine tra Ucraina e Polonia] Stazione di Prezmysl. […] Da qui, col passare dei giorni, vengono smistati nei centri di accoglienza di Cracovia, Katowice, Varsavia. Un via vai che non conosce soste, nel caos di un’emergenza che ha colto tutti impreparati. Sul piazzale della stazione si avvicendano bus, pullman, anche cellulari della polizia locale pieni di donne, di bambini, di anziani che a malapena si reggono in piedi. L’altoparlante della stazione raccomanda di fare molta attenzione alle parole dell’annunciatrice perché i treni non seguono gli orari normali. Al controllo passaporti ci sono intere famiglie di Rom, di zingari. […] Non ho chiara la percezione di cosa accada davvero in quell’edificio staccato dal cuore della stazione, imprigionato in un reticolato. Alle spalle, però, ci sono due binari. I tabelloni non segnano nessun treno, né in partenza né in arrivo. Sgomitando mi avvicino all’entrata presidiata dai militari. Sono giovani, i volti rubizzi di freddo.
Chiedo cosa stia succedendo, perché questa gente si agiti così tanto. Mi sorride sarcastico – non sai cosa sta succedendo? Davvero? – dice alludendo al fatto che la guerra è a due passi da qui.
– Si certo – rispondo a tono, infastidito da quella stupida arroganza – Ma qui, in questo edificio? Cosa accade? – gli chiedo.
– Li vedi? – risponde disegnando un arco con il movimento di un braccio.
– Questi vengono rispediti indietro. –
Sono sicuro di aver capito male. – Indietro? – dico – cioè ritornano in Ucraina? – Risponde di sì e sembra per giunta compiaciuto.
– Non hanno documenti? –
– Sì, li hanno. I loro documenti sono in regola, ma LORO non li vuole nessuno. –
Loro, ovviamente, sono gli zingari. Dove a me pare di vedere solo donne e bambini, solo ed esclusivamente esseri umani che come gli altri hanno il diritto – e i militari il dovere – di essere portati in salvo dalla distruzione delle loro identità e delle loro vite, gli uomini in mimetica non vedono altro che zingari, brutti e sporchi come se questa fosse una colpa senza redenzione.
– In che senso non li vuole nessuno? –
– Sono poveri – dice – Non vogliono lavorare, sono sporchi. –
– Perché? Cosa c’entra? – Non riesco a stare zitto, a subire in modo passivo questa che ha tutta l’aria di una violenza.
– Chiedi a loro, che vuoi da me! –
– Sono rifugiati come gli altri – dico – sono esseri umani anche loro. –
Fa finta di non sentire. Mi guarda ora con un paio di occhi gelidi, il busto irrigidito. Mi fa segno di andare.
Ecco l’altra faccia dell’accoglienza, penso.
La Polonia si rivela per quello che è, un paese di estrema destra, che vede in chi è diverso il diavolo. Non è un caso che qui abbiano abrogato la legge contro l’aborto e guardino agli omosessuali come il male. Le cronache parlano del fatto che alla frontiera fermano i transgender, li rimandano indietro perché sui documenti c’è scritto su che sono uomini e la legge marziale imposta in Ucraina prevede che rimangano a combattere. Figuriamoci gli zingari. Perseguitati da secoli. Entro anch’io a far parte della fila. Li guardo negli occhi, fra loro c’è un solo uomo, sulla sessantina, ha un paio di occhiali dalla montatura nera le cui aste sono riparate con il nastro adesivo, indossa un paio di scarpe correttive e zoppica vistosamente. Se ne sta zitto in un angolo, la faccia arresa all’evidenza delle cose. Tiene in braccio una bambina. Mi avvicino, le accarezzo la testa e mi viene istintivo darle un bacio. Ho davanti gente che ha perso tutto, che se mai ha posseduto qualcosa, non ha più nulla. La loro casa adesso è ciò che si portano dietro. […] Un trattamento disumano. Ricevono sì gli aiuti delle organizzazioni umanitarie, della Caritas, ma non sono ammessi nella pancia della stazione, non possono stare al caldo come gli altri. La temperatura è di -2 gradi. La notte scende fino a -4. Quanti bambini. Mi avvicinano, chiedono qualche moneta, vogliono toccare la macchina fotografica, vogliono che gli scatti qualche fotografia. Li accontento, sorridono, si mettono in posa. I bambini sono bambini in tutte le parti del mondo. Non tutti, però. Ci sono anche quelli che, traumatizzati, hanno smesso di parlare. Alcuni persino di muoversi. Stanno in braccio alle madri, con lo sguardo fisso al nulla. Con tutta la rabbia, con tutto l’amore, ogni fotografia che riesco a fare si trasforma in una croce da portare. La dignità, la forza di questa gente nel sopportare queste angherie, di essere trattati come rifugiati nemmeno di serie B, quasi come animali, mi lascia senza fiato. Vorrei abbracciarli uno per uno, augurargli buona fortuna o “lacio drom”, buon viaggio in lingua romanì, ma subito mi rendo conto che l’unica cosa che posso fare è raccontare quello che sto vedendo, senza filtri e giri di parole, per restituire loro quella dignità tolta due volte, una volta per via della guerra, un’altra per quella falsa accoglienza. Passano i minuti, le ore. A un certo punto le porte d’ingresso dell’edificio si spalancano. I Rom raccolgono quello che possono, molto lo lasceranno sull’asfalto, si accalcano sui gradini che li separano dal corridoio. Ripongo la macchina fotografica nello zaino e do loro una mano. […] Mi cinge le spalle l’unico uomo di tutta la compagnia, pianta i suoi occhi un po’ strabici nei miei, mi abbraccia forte. I nostri volti si riempiono di lacrime e poi, una volta staccatici, viene strascinato dalla corrente fino a che lo perdo di vista.

Torneranno tutti indietro, mi dico. Mi sento impotente.

Medyka, Polonia, marzo 2022. Un marito/padre porta in sicurezza la propria famiglia dall’Ucraina in Polonia. Dopo aver salutato i propri cari lo stesso uomo rientra in Ucraina per unirsi all’esercito e combattere © Francesco Malavolta/IOM

Francesco Malavolta
Questa non è una fotografia di quelle che, oramai, i photoeditor cercano per pubblicazioni su riviste e giornali, nonostante ormai vengano consumate così velocemente le immagini che arrivano dall’Ucraina che potrebbe anche andar bene ma, non era questo ad interessarmi, tanto che c’è persino del ‘disturbo’ sullo sfondo… L’ho trovata molto attinente rispetto a ciò di cui mi sono occupato in questi oltre 60 giorni, in particolare le persone che sono fuggite dall’Ucraina, verso i cinque Paesi limitrofi che hanno fatto accoglienza. La trovo forse una delle più forti per quel che riguarda le mie foto, i miei scatti. Erano i primi giorni di conflitto, agli inizi dello scoppio della guerra, i primi quattro giorni e la fotografia l’ho scattata al valico di confine di Medyka, in Polonia. Vediamo quest’uomo che aveva ricevuto il permesso per poter attraversare il confine, entrare in Polonia per poter portare in salvo la sua famiglia, per poi salutarla, baciare sua moglie e i suoi due piccoli, e poi, naturalmente, rientrare in Ucraina per arruolarsi e combattere, cosa diventata poi obbligatoria, ma nei primissimi giorni di guerra credo non lo fosse ancora. Per cui immaginare una persona che saluta i propri cari per tornare indietro a combattere dove la probabilità di vivere o morire è di 1 a 1, sia su un fronte che sull’altro, porta a  un qualcosa di molto molto complicato da capire e spiegare, che racconto con questa fotografia.

Cavalli uccisi con colpi d’arma da fuoco al collo, vicino la città di Hostemel, Ucraina, 21 aprile 2022 © Alessandro Penso

Alessandro Penso
La città di Hostemel è stata una delle prime città a  essere occupata dai russi nell’intento di assediare la capitale Kiev.
Per settimane vi si è combattuta una delle battaglie più dure.
I cittadini raccontano che, durante l’occupazione russa, chiunque provasse a fuggire dalla città o dai villaggi veniva ucciso.

 

Ogni scatto e singola parola di Caimi&Piccinni, Simone Cargnoni, Francesco Faraci, Francesco Malavolta e Alessandro Penso appare come tassello di un puzzle di inenarrabile geografia, in cui confini, limiti, barriere e distanze assumono un valore nuovo insieme a una distorsione generata da processi storici che si abbattono su milioni di persone inermi. In tale pericolosissimo azzardo, comprendiamo, grazie a chi ha vissuto e sta vivendo il conflitto offrendo i propri occhi, percezioni e parole ai nostri, che i confini non sono soltanto un solco nel terreno ma abissi profondi, voragini in cui si rischia, d’improvviso, di precipitare. Dal 2020 abbiamo fatto i conti con la nostra geografia interiore e fisica, mentre il limite dello sguardo si ampliava o claustrofobicamente restringeva, sino a che, immersi, impotenti, nell’immanenza di una metafora chiamata ‘guerra’, surreale, inaudita e sconvolgente, qualcosa ai confini della Vecchia Europa, magmaticamente, stava per sovvertire l’ordine precostituito nel Novecento.

Le prospettive donate dai sei fotogiornalisti qui coinvolti, pertanto, appaiono come un necessario attraversamento di confini, nuova terra che si fa orizzonte e che noi, nelle nostre case sicure, dobbiamo imparare a leggere, interpretare, comprendere.

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