di Daniela Mericio
_
Ho avuto il piacere di visitare Champù. The youth of La Vibora, presentata in anteprima Photolux Festival, in compagnia dell’autore, belga di nascita ma innamorato di Cuba, e di Nanda van den Berg, curatrice della mostra e direttrice del museo di fotografia Huis Marseille ad Amsterdam. Passeggiando per le maestose sale affrescate del Palazzo Ducale di Lucca, che ospitano l’esposizione, ho rivolto loro qualche domanda.
Nanda, come definiresti l’opera di Delbrouck e questo lavoro in particolare?
Ero stata ad alcune sue mostre in Belgio, quindi conoscevo gli still life scattati nei paesaggi di Cuba e del Nepal; conoscevo i collage, dallo stile estremo e sfrenato, e conoscevo i suoi libri. È un fotografo appassionato, dipinge, scrive, sente le cose in modo profondo e produce un incredibile flusso di immagini. Perciò, quando abbiamo deciso di incontrarci, mi aspettavo di vedere i collage, ma dopo avermene mostrati alcuni, splendidi, realizzati a Cuba, ha estratto da una scatola questo progetto così diverso, dedicato alla gioventù cubana. Vedere questi ritratti spontanei, immediati, di adolescenti che abitano in un Paese dove vivere è difficile, è stata una vera sorpresa.
Non si lasciano abbattere dalla frustrazione, sono raggianti nella loro giovinezza, nel loro amore l’uno per l’altro. Vincent è stato capace di cogliere questo aspetto positivo, un bagliore di speranza. Mi ha colpito il modo in cui è riuscito a relazionarsi con i ragazzi, pur non avendo la loro età, diventando uno del gruppo. Nel fotografarli non ha usato un approccio voyeuristico o distaccato, è entrato in sintonia con l’ambiente. Da un lato, la storia di questi giovani cubani è universale; dall’altro, per i colori, la fluidità, la sensibilità e il coinvolgimento dell’autore, è unica. Su questo aspetto, cedo la parola al fotografo…
Vincent, sei sempre stato attratto da Cuba, ma “Champù” si è sviluppato in modo spontaneo, inaspettato…come è iniziato?
Ho lavorato molto a L’Avana. Ho cominciato alla fine degli anni ’90 e ho realizzato il primo libro in quartiere della città vicino al Malecón, in una zona difficile. Poi ho lasciato Cuba e non sono più tornato per anni. Ho dovuto creare un distacco, perché sono sempre emotivamente molto coinvolto dai mio lavoro. Non si può dire che sia autobiografico, ma è in relazione con ciò che incontro e con il flusso della mia vita personale. Dopo tanti anni, nel 2014, sono ritornato: non con l’intenzione di documentare la vita della popolazione cubana, solo per vedere se avrei potuto realizzare qualcosa di diverso. Ho girato parecchio e ho conosciuto molte persone. Infine, ho incontrato un vecchio amico che abitava a La Vibora, un sobborgo alla periferia de L’Avana, e sono andato a stare da lui. Mi sono Innamorato della zona, un’area molto tranquilla che definirei middle-class. Cuba è un Paese comunista ma, come ovunque, ci sono anche persone benestanti, mentre altri fanno fatica a sopravvivere, specie con la difficile situazione economica attuale.
In un giorno di marzo, nel 2018, passeggiavo per il quartiere con una simpatica, anziana signora: raccoglieva fiori e io scattavo fotografie, ritraendola con i fiori tra i capelli. Arrivati al parco in cima alla collina, c’erano alcune ragazze e mi hanno chiesto se volevo fotografarle. Dopo un’ora che ero lì, ho sentito di essere arrivato nel posto giusto. Ho capito che, inconsciamente, avevo trovato quello che cercavo: essere con un gruppo di persone e avere uno scambio intenso. E ho iniziato a trascorrere del tempo con loro.
In quanto tempo hai realizzato il progetto? Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
Poco più di un anno: 3 viaggi di un mese ciascuno. Passavo le giornate con il gruppo dei ragazzi, andavamo in spiaggia insieme. Alcuni di loro devono ancora finire la scuola, altri sono più grandi e tutto ciò che vogliono è stare insieme e incontrare ragazze. Non hanno niente da fare, non lavorano, forse aspettano di entrare all’università. Queste immagini sono molto significative per me, perché sono legate alla parte della popolazione più sensibile, che si trova in un’età delicata: sono giovani dall’intelligenza particolare e potenzialmente elevata. Si ritrovano in questo luogo per stare tra di loro e incontrare persone affini. È come se avessero la necessità di ritagliarsi uno spazio al di fuori della società “normale”, della scuola e tra di loro c’è un legame molto forte. Ascoltano musica, specie il rap, proprio come mio figlio, bevono un rum diluito, chiamato champù, e fumano un’infinità di sigarette.
Siete rimasti in contatto? Tornerai a Cuba?
Sì, siamo in contatto anche su Facebook. Alcuni sono andati in Messico o negli Stati Uniti, altri sono rimasti a L’Avana. Non sono mai stati freddi con me, mi dicono sempre che sperano di vedermi ancora, mi fanno sentire come se fossi parte di una famiglia. Partirò per L’Avana a gennaio e forse farò dei video, anche perché non so se poi tornerò di nuovo. L’ultima volta che sono andato, al parco non c’era nessuno e ho fatto fotografie di still life. Non tornerò se non troverò la stessa, vibrante energia.
“Champù” si discosta dai lavori precedenti. Che significato ha nella tua carriera?
Per me questa serie è “la serie”: oserei dire il lavoro della vita. So di avere raggiunto esattamente ciò che volevo, lo sento con tutto me stesso. Riguarda l’amore, i sentimenti, ed è fondamentale. Ho sempre provato una forte attrazione per i giovani di quell’età, forse anche perché ho avviato la relazione con la mia ragazza quando avevo 18 anni. In quel periodo andavo sempre al cinema, volevo fare il regista, e mi è rimasta in mente un’immagine femminile, quella della donna-bambina. Ricordo di avere molto amato il film Nikita di Luc Besson, in cui la ragazza ogni tanto si comportava in modo folle… tutto ciò non ha nulla a che vedere con l’idea della Lolita, non è connesso con l’aspetto sessuale, è invece un qualcosa di molto puro, legato al fascino di un’età in cui tutto sembra possibile. Non che io abbia la crisi dei 40 anni e voglia tornare indietro, è solo che sono rimasto lo stesso ragazzo di allora e oggi, a 44 anni, è come se ne avessi ancora 18. Mio figlio ha 17 anni e ora il mio rapporto con lui è più profondo di quando ne aveva 10. Con questi ragazzi è uguale. Ho fiducia in loro. L’anno scorso, a L’Avana, ho dovuto interrompere alcuni rapporti perché sentivo di non potermi fidare, forse perché ero considerato uno straniero di cui ci si poteva approfittare. Con i ragazzi di La Vibora no, era come essere parte di una famiglia. Li fotografavo, si scherzava, era come un gioco. Ci divertivamo ed era tutto molto bello.
Le immagini comunicano allegria e voglia di vivere, ma ben guardare si percepisce una vena di malinconia. È così? Dipende anche dal contesto?
È così ed è un aspetto tipico di quell’età, perché non sai ancora esattamente cosa vuoi. In un certo senso, a Cuba, anche per chi è adulto non c’è molta speranza, oggi più che mai. L’unica opportunità, secondo loro, è andarsene. Amano stare con gli amici, amano L’Avana e Cuba, ma prova a chiedere loro se vorrebbero andare in Europa: risponderebbero subito di sì.
Alcuni ritratti sono straordinari, su cosa ti sei concentrato nel realizzarli?
C’era un’atmosfera piacevole, quel tipo di energia che amo molto. Ero affascinato da piccoli gesti, come l’abitudine di giocare con i capelli… quando ritraggo qualcuno sono sempre attratto dai dettagli o dal modo in cui è vestito. Infatti, i ragazzi fotografati sono tutti alla moda, ma non è una posa; non lo fanno per sedurre, sono così e basta. Hanno una forte personalità e scelgono di comunicarla attraverso il look. In un’immagine, per esempio, Gabriela indossa la divisa scolastica: a Cuba le ragazze si fanno sistemare la divisa in modo da renderla aderente, nessuna andrebbe a scuola con la divisa che ha ricevuto dallo Stato; anche se una ragazza fosse grassa, poniamo, la modificherebbe per renderla attillata. Sono particolari, come il trucco leggero, ma sono curiosi, interessanti, perché da tutta questa attività traspare l’atteggiamento degli adolescenti. Oggi i giovani sono attratti dalla moda e sanno come usarla. A Cuba è molto evidente, ma siamo lontani dallo stile americano, è uno stile cool, fresco e di tendenza, e si abbina all’ascolto di un certo tipo di musica.
I tuoi collage sono famosi, ma in questa serie non hai utilizzato questa tecnica. La userai di nuovo?
Sì, ho anche in progetto un nuovo libro, realizzato soltanto con collage. Se guardo i due lavori, posso affermare che sono come due sentieri che non si incrociano, sono due modalità di espressione parallele. Può sembrare incoerente, ma noi siamo completi solo quando accettiamo le nostre contraddizioni. Anche se alla gente non piace.
VINCENT DELBROUCK | CHAMPÙ. THE YOUTH OF LA VIBORA
A cura di Nanda van den Berg e Vincent Delbrouck
in collaborazione con Huis Marseille e Stieglitz 19
Palazzo Ducale
Cortile degli Svizzeri, 1, Lucca
PHOTOLUX FESTIVAL | 16 novembre – 8 dicembre 2019
da lun a ven: 15:00 – 19:30
sab e dom: 10:00 – 19 :30
La serie Champù sarà in mostra al museo Huis Marseille, Amsterdam
dal 5 settembre al 6 dicembre 2020.
30 novembre 2019