di Daniela Mericio
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Le fotografie di Tommaso Protti ci conducono nell’Amazzonia brasiliana, nel cuore del polmone verde minacciato dalla deforestazione, in una terra in bilico tra emergenza ambientale e crisi sociali. Il fotografo italiano, che oggi vive e lavora a San Paolo, ha vinto la decima edizione del Carmignac Photojournalism Award, che ogni anno finanzia un progetto di fotografia investigativa su violazioni dei diritti umani e questioni geostrategiche nel mondo. Il reportage, realizzato fra gennaio e luglio 2019 tra gli stati di Maranhão, Rondônia, Pará e Amazonas, è ora in mostra alla Maison Européenne de la Photographie a Parigi.
Una bella soddisfazione ricevere il premio. Cosa hanno significato per te questi 6 mesi?
È stato fondamentale perché mi ha concesso risorse e autonomia ma non solo, perché il team della Fondazione ti supporta con autorizzazioni e ricerche, aiutandoti a sviluppare il progetto. Sono 5 anni che lavoro sull’Amazzonia, combinando “assegnati” e autofinanziandomi. È immensa, richiede tempo per via delle distanze e della complessità del territorio. Il grant mi ha permesso di affrontare tematiche diverse e di proseguire il lavoro, unendo i tasselli come in un mosaico.
L’Amazzonia è stata recentemente al centro delle cronache per il flagello degli incendi. Nei tuoi reportage hai messo in luce come la questione ambientale si leghi a gravi problemi sociali. Ci descrivi la situazione?
L’Amazzonia è sempre stata vista in modo stereotipato. Si ha l’idea di un territorio incontaminato, dove esistono solo giungla e tribù di indigeni nudi, isolati. Nel corso dei decenni tutti i governi del Brasile ne hanno incentivato la colonizzazione. Con il tempo, le persone, che avrebbero dovuto coltivare ma anche proteggere l’area, si sono trasformate in fazenderos, proprietari terrieri, agricoltori, allevatori. Oggi oltre l’80 % del disboscamento in Amazzonia è dovuto all’allevamento intensivo di carne e alle piantagioni di soia. Più del 17 % della foresta è perduto. Noi, da fuori, percepiamo solo la questione ambientale ma all’interno della regione è in atto una corsa allo sfruttamento.
Su quali temi ti sei concentrato?
L’idea era realizzare un ritratto dell’Amazzonia moderna, dove problemi sociali e ambientali si sovrappongono. Ho affrontato diversi temi, dal disboscamento all’estrazione illegale di oro, in Brasile chiamata garimpo. La corsa all’oro si sviluppa lungo due binari: da una parte le multinazionali, che comprano immense aree di terreno, dall’altro, piccoli gruppi di disperati, radunati in cittadine da dove si parte per andare a caccia di oro nelle riserve. Sono luoghi in cui ci sono solo orefici, alcol e bordelli. Ho anche indagato temi come il conflitto agrario tra i braccianti, i sem terra (senza terra) e i grandi proprietari terrieri, i fazenderos. Soprattutto mi sono concentrato sulla crescita incontrollata dei centri urbani. Belem, Manaus, Altamira: avamposti coloniali divenuti città di 2-3 milioni di persone a causa dell’emigrazione e nelle cui periferie si trovano le favelas più grandi del Brasile. Oltre alla povertà, il problema più grave è e la droga: il Rio delle Amazzoni è una delle principali rotte del traffico e il Brasile è il primo consumatore al mondo di crack e il secondo di cocaina. In città come Manaus o Altamira è in atto una guerra tra clan e sono tra i luoghi più violenti al mondo. Ho fotografato membri di organizzazioni criminali, come la Família do Norte, la più potente dell’Amazzonia. Volevo far capire come il disboscamento e la devastazione in atto siano anche conseguenza dell’aumento dei consumi, dalla carne alla cocaina. Per salvare l’Amazzonia dovremmo cominciare dai centri urbani, creando modelli di sviluppo sostenibili. Inquinamento, corruzione, ineguaglianza, sono tutti fattori connessi. La mia visione è: non si può salvare l’ambiente senza combattere povertà.
Mi ha colpito l’immagine dei “Guardiani della foresta”, c’è una percezione della questione ambientale…in che termini?
Sono indigeni di etnia Guajajara, nello stato del Maranhão, e da alcuni anni si sono organizzati in gruppetti per pattugliare le riserve minacciate dai taglialegna illegali. Li chiamano “le milizie”. Finché non ammazzano nessuno sono tollerati, perché proteggono il loro territorio. Sono dei veri attivisti: girano armati, organizzano appostamenti notturni e, se colgono in flagrante qualcuno, bruciano macchinari e accampamenti o sequestrano il legname. Una notte li ho accompagnati: l’uomo nella fotografia è un indigeno della stessa etnia, picchiato in quanto informatore dei taglialegna, da lui avvertiti dell’imboscata. Il giorno dopo, in una radura nella foresta, abbiamo trovato i tronchi tagliati. Lì ho scattato l’immagine, molto evocativa, dell’indio triste e assorto, piegato sull’albero. Oggi i taglialegna abbattono tronchi in un’area per poi spostarsi in un’altra – “a ghepardo” –in modo che sia più difficile individuarli e monitorare il disboscamento. Non ci sono forze per controllare il territorio e l’impunità è un altro fattore drammatico.
L’Amazzonia è diventata la tua “missione”. In principio la fotografavi a colori, perché poi sei passato al bianco e nero?
È un modo di fotografare che mi permette di esprimermi meglio. I primi viaggi erano degli “assegnati” e usavo il colore. Poi ho capito che i lavori erano interconnessi e ho sentito la necessità di investigare con un progetto a lungo termine; allora ho iniziato a scattare in bianco e nero, perché mi aiutava a unire le varie tematiche in modo coerente; inoltre, sentivo che stavo sviluppando un mio linguaggio, uno stile fotografico riconoscibile: il bianco e nero, l’idea di usare molto il flash, di creare una tensione. Una modalità espressiva che mi aiutava a descrivere il lato oscuro dell’Amazzonia, eliminando il colore verde e luminoso che distraeva l’attenzione dalle storie.
In effetti molte immagini sono dense, scure, notturne…
Ci sono due motivi: il primo è che mi piace l’impatto del flash di notte; il secondo è che la regione è caldissima, quindi di giorno è difficile lavorare. La vita inizia al calar del sole: quando mi trovavo presso alcune popolazioni indigene, durante la giornata nel villaggio non succedeva nulla, mentre la sera una marea di bambini si radunava nel piazzale principale per giocare fino a notte fonda.
Un reportage di questo tipo può presentare difficoltà. Come ti organizzi? Ti sei trovato in situazioni spiacevoli?
Le distanze sono incolmabili, quindi devi organizzare gli spostamenti prima di partire. Non esistono veri e propri fixer, il lavoro è stato agevolato dai contatti che mi sono creato negli ultimi anni. La realtà è imprevedibile e spesso le storie le trovi sul campo. Le difficoltà iniziano quando ti ritrovi in posti sperduti: ci sono situazioni in cui ti senti nella terra di nessuno, ed è una terra senza leggi. Una volta volevamo raggiungere un garimpo, una miniera illegale, nello stato del Pará. Ci sono voluti un paio di giorni per arrivare alla cittadina di Crepurizão: da lì ci siamo spostati con un aeroplanino a elica, in cui solo il pilota aveva il sedile. Il nostro contatto era un pastore evangelico che ci aveva invitato a fotografare il garimpo usando come scusa il fatto di realizzare un servizio sull’evangelizzazione. All’arrivo, però, il primo avamposto era un villaggio indigeno e non c’erano i leader dai quali avremmo dovuto prendere un’autorizzazione. In realtà il vero problema era il fatto che i garimperos stavano pagando agli indigeni una sorta di tangente per scavare sul loro territorio. Inoltre, il pastore non era stato chiaro e le foto le ho dovute fare di nascosto… poi, al villaggio, il leader indigeno ci ha intimato di andarcene, ma l’aeroplano era ripartito. Eravamo in mezzo al nulla. L’abbiamo scampata ma la notte dormi con un po’ di angoscia, perché ti trovi tra mille attività illegali.
Lavori in tandem con il giornalista britannico Sam Cowie. Quanto è importante?
Siamo affiatatissimi. Abbiamo iniziato realizzando storie insieme per lo stesso giornale. A un certo punto ci siamo detti che c’era qualcosa di grosso in questa regione da raccontare: verità velate, spargimenti di sangue. E abbiamo iniziato, da freelance. Il fotografo vede delle cose, il giornalista ne vede altre, e la storia ne viene rafforzata.
Il fotogiornalismo è ormai affidato quasi del tutto all’iniziativa personale?
Non ho più la visione romantica che avevo all’inizio, però credo che le fotografie possano sensibilizzare le persone. Vivo la professione come una testimonianza, una raccolta di prove. I fotogiornalisti sono una categoria in via d’estinzione e io da alcuni anni realizzo anche lavori commerciali. Per questi progetti devi essere motivato, avere il fuoco sacro della passione.
Il futuro?
Un reportage sulla costa del Brasile. E l’Amazzonia: con un collega sto lavorando anche a un cortometraggio, ma vorremmo sviluppare un vero e proprio film.
TOMMASO PROTTI | AMAZÔNIA
MEP – Maison Européenne de la Photographie
5/7 Rue de Fourcy – Paris
4 dicembre 2019 – 16 febbraio 2020
mer e ven: 11 – 20
gio: 11 – 22
sab e dom: 10 – 20
Il catalogo Amazônia, Life and Death in the Brazilian Rainforest è pubblicato da Fondation Carmignac e Relief Editions.
Fotografie: © Tommaso Protti per la Fondation Carmignac
4 dicembre 2019