di Dario Orlandi
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Il lavoro fotografico di Mitch Epstein si sviluppa, fin dalle prime produzioni, intorno al delicato equilibrio che unisce natura e società. Un rapporto talvolta virtuoso e prolifico, più spesso complesso e conflittuale.
La società statunitense è oggetto costante dell’osservazione del fotografo. Nella serie Recreation, che raccoglie immagini scattate tra gli anni ’70 e ’80, Epstein indaga i rituali di noia ed eccesso, alienazione e possibilità che costituiscono un distillato dell’America moderna.
Una società opulenta, ma proprio per questo annoiata dall’eccesso di possibilità e che cova al proprio interno le contraddizioni che costituiranno l’oggetto dei lavori successivi del fotografo.
Nella serie India, scattata tra il 1978 e il 1988, il fotografo sposta l’indagine ad un Paese in via di sviluppo, documentando la delicata interazione tra società e paesaggio. Con questo lavoro comincia a delinearsi più chiaramente la dialettica natura-società-paesaggio-ambiente che, in forme diverse, costituisce l’oggetto centrale della ricerca di Epstein.
Il parallelo fra società dell’opulenza e Paesi in via di sviluppo si ritrova in Vietnam (1990) – la documentazione di un paese in lenta apertura all’economia di mercato – a cui risponde specularmente The City, dedicato a New York, dove le persone creano un sistema solare intimo di famiglia, amici, e associati per sopravvivere al bruto anonimato dello spazio pubblico.
Il progetto che affronta in maniera più esplicita la tematica ambientale è American Power (2009) che non solo esamina come l’energia è prodotta e utilizzata nel paesaggio americano e come influenzi le vite degli americani, ma – approfondendo il ragionamento – si interroga sul potere della natura, del governo, delle corporazioni e del consumo di massa – così come del potere dello sguardo – negli Stati Uniti.
Il desiderio di investigare come interagiscono natura e società prosegue nei due lavori successivi, scattati nei sobborghi di New York: New York Arbor e Rocks and Clouds. Nel primo l’effetto cumulativo delle fotografie ha lo scopo di invertire lo sguardo abituale delle persone sulla città: gli alberi non fungono più da sfondo, ma dominano invece la vita e l’architettura accanto a loro. Nel secondo la specularità di rocce e nuvole evoca l’aspirazione – e l’impossibilità – umana di sfruttare il tempo e la natura.
Se il lavoro di Epstein – per quanto schierato – ha mantenuto per oltre 30 anni un approccio analitico e aperto, nei due ultimi progetti Hoh Rain Forest e Property Rights lo sguardo del fotografo prende una piega più cupa e definitiva.
In Hoh Rain Forest per la prima volta Epstein affronta una natura incontaminata e non umana, trasformando la dialettica natura-società in un epitaffio per l’ambiente ormai irrimediabilmente compromesso e confinato.
Lo stesso clima si ritrova in Property Rights, dove alcuni sparuti indigeni e ambientalisti si ergono come baluardi isolati contro l’inarrestabile avanzata della società a discapito del naturale.
Epstein ha saputo mantenere per oltre quarant’anni una straordinaria coerenza tematica, declinandola in soluzioni dallo sguardo ampio, sempre parzialmente sospese, più adatte a sollevare interrogativi che a fornire facili risposte.
La parabola delle sue ultime riflessioni – in cui la dialettica società-natura lascia spazio a una nuova e inquietante sintesi – lascia intuire un’accelerazione della questione ambientale, divenuta ormai un tema non più procrastinabile.
9 luglio 2019