di Dario Orlandi
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I paesi parlano, come ogni cosa, e parlano innanzitutto con la geografia.
Sono terra da leggere anche se hanno perso molte parole, e da scrivere.
Franco Arminio
«L’Italia ha una lunghissima colonna dorsale che sta perdendo poco a poco la sua linfa. La gente sceglie di abitare nelle città e, quando sceglie i paesi, ha sempre cura che siano comodi e pianeggianti. Nessuno vuole stare nei luoghi più impervi, quelli dove gli inverni sono lunghi e non passa nessuno. L’Appennino è l’Italia che avevamo e che rischiamo di perdere per sempre. La gente ci ha vissuto per millenni consumando quel poco che bastava a sostentarsi. Penso all’Appennino come alla vera cassaforte dei paesi, una cassaforte piena di monete fuoricorso.»
Sono le parole con cui Franco Arminio – poeta, saggista e “paesologo”, come ama definirsi – introduce Varco Appennino, il libro che Simone Donati, fotografo del collettivo TerraProject, ha dedicato alla dorsale montuosa dell’Italia meridionale, luogo emblematico di un’antica cultura dei territori e di sussistenza frugale, di riti profondi e memorie collettive, che le trasformazioni socio-economiche dettate dalla modernità hanno fortemente segnato.
L’Appennino come colonna portante dell’Italia peninsulare, nelle sue ricorrenze ambientali e culturali che stabiliscono una continuità molto più evidente delle variegate realtà costiere. L’Appennino non solo come termine geografico, ma come “luogo” – nel significato profondissimo dell’appartenenza – il cui abbandono rappresenta il lento e inesorabile dissolvimento di un modo di essere insieme topos ed ethnos. L’Appennino, infine, come teatro di tentativi maldestri di un ammodernamento affrettato, terreno “di una modernità posticcia” rivelatasi, oltre che forzosa, scarsamente efficace.
Le immagini di Donati, lente e meditate in continuità con l’approccio del collettivo di cui Simone è fondatore, offrono uno spaccato sul senso di appartenenza e sui rituali che segnano i borghi ormai desolati dei rilievi peninsulari. Nei bar e nelle strade semideserte, nelle trattorie e negli alberghi dal sapore domestico, nei volti segnati dal sole e dal gelo, risuonano i richiami dei pastori e le eco dei campanili a scandire un tempo silente e dilatato. Le immagini sono intervallate dal Vocabolario Appenninico di Franco Arminio, un breviario di termini che scandagliano la profondità del territorio, la sua identità: “Bar, “Contadino”, “Desolazione”, “Emigranti”, “Luoghi”, “Piazza”, “Silenzio”, “Vecchi” sono alcune delle voci di questo intenso compendio che dialoga con le immagini lungo le pagine del libro.
Prosegue Arminio: «Ci sono zone in cui il paesaggio è ancora incontaminato ed è come deve essere: solitario e sprecato. Cosa augurarsi per queste terre? Più che chiedere politiche d’incentivazione, verrebbe voglia di incentivare l’esodo, in maniera tale che tornino le selve, che la natura riassorba le folli smanie cementizie che non hanno edificato niente di bello e che non hanno portato reddito. Una nazione con un filo di montagne disposto in tutta la sua lunghezza dovrebbe ricordarsi più spesso di questa sua geografia. Io credo che sia arrivato il tempo di considerare l’Appennino come il luogo in cui si raccoglie la forza del passato e quella del nostro futuro. Dalla Liguria alla Calabria, adesso, è tutta una storia di frane e spopolamento, di vecchi dismessi e di scuole che chiudono, di paesi allungati, spezzati, deformati. È una storia che non esiste perché non fa notizia.»
Simone, come è nato questo lavoro?
Varco Appennino è il frutto di varie contingenze: a distanza di un anno dalla pubblicazione di Hotel Immagine [il primo libro di Donati, del 2015, ndr.] – che essendo legato all’attualità italiana si adatta al ritmo veloce degli eventi – ho sentito il bisogno di riscoprire un modo più pacato e meditato di fotografare; ho scelto dunque di tornare alla fotografia analogica in medio formato per riscoprire il gusto della lentezza sia in fase di scatto che di restituzione delle immagini. L’occasione che mi ha spinto ad intraprendere questo lavoro è stata un viaggio nelle aree interne della Calabria, durante il quale ho iniziato a prendere coscienza della ricchezza di questi territori; ho deciso di esplorarli per approfondire questa intuizione, la fotografia per me è un’occasione di conoscenza.
Perché l’Appennino? Come nasce il tuo interesse per l’argomento?
Nei miei lavori più lunghi ho sempre scelto di concentrarmi sull’Italia, il territorio che credo di poter comprendere e raccontare più a fondo. Con l’Appennino, in particolare, ho percepito immediatamente una sorta di affinità caratteriale: in questi luoghi ho trovato una profonda consonanza con la mia natura e lo stile fotografico del lavoro conferma ulteriormente questo incontro. Proseguendo nel percorso di ricerca, allo stupore iniziale si è sostituita una lenta maturazione del senso di questi territori, luoghi in cui la relazione fra persone e paesaggio è estremamente profonda, quasi viscerale. Ho cercato volti e situazioni intrise di storie che ho deciso, tuttavia, di non riportare nel libro per lasciare spazio alle immagini: non mi interessava una lettura giornalistica, analitica del racconto; ho preferito lasciar emergere un’atmosfera, un ambiente, un’identità. Lavorando e confrontandomi con Fiorenza [Fiorenza Pinna, curatrice e designer del libro, ndr.] il progetto ha trovato la sua identità finale.
Parlami della collaborazione con Fiorenza Pinna.
Nell’estate del 2019, quando avevo già raccolto un buon corpo di immagini, ho proposto a Fiorenza di lavorare insieme alle fasi conclusive del lavoro. Abbiamo subito trovato un’ottima intesa visiva sulla direzione del progetto; dal confronto sono nate le ultime immagini, i tasselli finali della narrazione. Il suo lavoro è stato fondamentale nel dare maggior forza alle mie intenzioni autoriali e a definire il centro del progetto, oltre che a trovare la distanza necessaria per eliminare alcune immagini a cui ero inizialmente affezionato, in favore di una maggiore continuità di senso. Abbiamo lavorato subito a una selezione piuttosto essenziale, la discussione e lo scambio hanno reso il processo naturale. Quella di Varco Appennino è una sequenza molto fluida con un design semplice che lascia spazio alle immagini e ai testi, muovendosi per piccole e significative scelte grafiche.
Com’è nato il rapporto con Franco Arminio?
Approfondendo il lavoro di Franco Arminio sulle “aree interne”, ho realizzato che il suo metodo di ricerca era molto affine al mio: girovagare senza una mèta precisa, parlare con le persone, raccontare luoghi e atmosfere. L’ho incontrato più volte nel suo paese – Bisaccia, in Irpinia – dove ha sede la “Casa della Paesologia”; riguardando i suoi testi, Vocabolario Appenninico è apparso subito perfetto per fare da contrappunto alle immagini. Con Fiorenza abbiamo deciso di inserire le sue “definizioni” all’interno del libro per creare due percorsi paralleli; non si tratta di “didascalie”, ma di una seconda chiave di lettura che dialoga con le immagini.
Come racconta Arminio nel suo Vocabolario, l’Appennino è stato a lungo luogo di emigrazione. Può rappresentare, oggi, una nuova mèta, una prospettiva geografica e simbolica per il futuro?
Spero che questo lavoro aiuti a riflettere sul senso dei luoghi che per primi hanno subito le conseguenze della velocizzazione dei processi economici e sociali che caratterizzano il nostro tempo. Tuttavia, senza un consistente intervento pubblico non credo che sia possibile invertire il fenomeno dello spopolamento: la gente abbandona le aree interne a causa della mancanza di servizi e di opportunità lavorative. Ci sono stati degli esempi virtuosi, come nel caso di Riace, ma sono frutto di iniziative locali; occorrono invece interventi centrali e una strategia di lungo termine per rendere questi posti realmente attrattivi. La strada del recupero non è un’utopia, ma servono tempo e volontà.
Pensi che il tuo lavoro possa contribuire ad andare in questa direzione?
Non ho mai realmente creduto nell’idea che la fotografia possa “cambiare il mondo”. Vivo le immagini come un‘operazione di consapevolezza e di memoria, credo che l’identità di un fotografo emerga chiaramente dalla modalità stessa del suo lavoro; nel mio caso, nella proposta di un rallentamento, di un approccio quieto e in ascolto, già visivamente poco allineato con la velocità dell’immagine contemporanea. Non ambisco a fornire soluzioni; penso che il mio compito di fotografo sia osservare e descrivere aspetti della società che ritengo interessanti e che sento di voler condividere, sperando che la mia sensibilità diventi un’occasione di riflessione per chi vorrà soffermarsi sulle storie che racconto.
Varco Appennino è una finestra sulla memoria dei luoghi, un percorso – quasi una meditazione – nella profondità dell’appartenenza e nella compenetrazione fra identità e territorio. Il libro fotografico di Simone Donati, curato e progettato da Fiorenza Pinna, è accompagnato dai testi di Franco Arminio.
Il libro
Simone Donati
Varco Appennino
Witty Books, 2021
Fotografie: © Simone Donati/TerraProject
3 giugno 2021