di Azzurra Immediato
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“Molte immagini possono essere rilette come un’aspirazione potenziale alla sopravvivenza, utili strumenti di difesa contro l’annientamento. Nella loro tragicità esse affermano la volontà di vivere e di abitare spazi e territori anche distrutti. Diventano la riappropriazione di una forza che sta in fondo alle viscere e testimonia della possibile reazione allo sterminio e alla violazione delle identità e dei corpi.”
Così scriveva Germano Celant, nel 2015, nella sua pubblicazione Fotografia maledetta e non ove lo storico e critico d’arte, ideatore e teorico dell’Arte Povera, indagava il mondo della fotografia. Non è necessario ripercorre, ora, la straordinaria carriera di Celant che, come molti, troppi altri, il Covid-19 ha portato via.
Di lui restano le visioni, l’aver saputo intuire e vedere nella diversità il seme del cambiamento. In tal maniera, nella sua analisi sulla fotografia, sulla storia ad essa legata, Celant sapeva riconoscere il tratto umano, storico di uno scatto, di un racconto per immagini che in sé sapeva recare il mondo inconscio, ignoto, fantastico e psicologico, ma anche quello estremo delle tragedie umane.
Ed è incredibile come, in un momento in cui la fotografia sembra concentrata su quanto l’epidemia sta configurando dinanzi ai nostri occhi, proprio lui non riuscirà a scoprirne lo sguardo che giungerà nel futuro, lui che il futuro sapeva guardarlo negli occhi, mentre tutti erano fissi sul presente.
In fondo però, rileggere oggi Fotografia maledetta e non riporta la mente ad un passato attraverso cui, Celant, aveva già intuito gli ossimori del tempo che sarebbe arrivato e che sarebbe stato, irrimediabilmente, fotografato.
Germano Celant (Genova, 1940 – Milano, 29 aprile 2020)
29 aprile 2020