di Azzurra Immediato
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Zona Gialla, Arancione, Rossa. Siamo diventati abitanti di uno spettro cromatico, divenendo, noi stessi, spettro di qualcosa che appare ancora un’incognita. La certezza è dover restare ancora nelle nostre case, il più possibile, per tentare affannosamente di arrestare la corsa del virus. E cosa resta in strada? Dopo le audaci folle degli ultimi tempi saremo nuovamente con gli sguardi rivolti verso l’esterno, dettati da ragioni più pregnanti, da normative più severe e sarà, forse, di nuovo il momento di fermarci davvero a pensare, senza quella inusitata euforia – o terrore dell’ignoto – che, però, non ci ha aiutato molto a ragionare. Da dove può partire il percorso razionale atto a rivedere sotto la giusta ottica quanto sta accadendo? Potremmo iniziare a fare i conti con il concetto – dimenticato – di coerenza e di principio. Ricordate la scorsa primavera? Chi aveva permesso che alcuni servizi restassero attivi per la comunità era diventato eroe. Poi è giunta l’estate, nel generale assordimento mentale e l’autunno ci ha riportati nell’inferno pandemico, emergenza in cui, come racconta la cronaca, quegli eroi sono attaccati dalla società come nuovi untori, pedine del complottismo di poteri forti e…no, vi prego, non si può continuare. Parliamo di persone, volti, vite, di ritratti di un’umanità travolta dal tourbillon della pandemia.
Per fortuna c’è chi la realtà la guarda sotto altre prospettive: Marco Gualazzini, fotoreporter di fama internazionale, già vincitore del World Press Photo 2019 e Gian Luca Signaroldi, manager della comunicazione, hanno ideato un progetto nel quale hanno coinvolto Pietro Gerboni, fotoreporter e video maker focalizzato sulle tematiche sociali e d’immigrazione e Mariachiara Illica Magrini, giornalista e documentarista. Quattro menti parmensi – la cui fama, però, è ben nota oltre i confini continentali – che hanno dato vita a Resilienti 2020: dietro la maschera, oltre il virus, un reportage, una mostra, un racconto, una forma di comunicazione partecipata, insomma, un compendio di pensiero catturato attraverso la fotografia. Ormai in Zona Arancione, abbiamo incontrato – a distanza di sicurezza, dunque, online – i quattro autori e approfondito la loro indagine.
Resilienti 2020, un progetto che avete definito come “percorso effimero, un ibrido tra fotografia, comunicazione seriale e installazione artistica inclusiva e compartecipata” il cui obiettivo è raccontare l’emergenza Covid-19 durante il primo lockdown del 2020. Da quale necessità è nato il confronto tra di voi e come avete deciso di sviluppare tale tragitto comune?
M.GUALAZZINI: Conosco Luca ormai da alcuni anni e, con Unsocials, abbiamo collaborato a diversi progetti. Da quando c’è stata la crisi di marzo la nostra collaborazione si è ulteriormente consolidata. Durante i mesi del lockdown sono uscito diverse volte per documentare quello che stava succedendo a Parma, e alcuni episodi mi hanno fatto riflettere. Anzitutto, la prima volta in cui ebbi accesso ad un reparto Covid all’ospedale. Arrivai che ero timoroso. Avevo coperto un reportage in Congo, alcuni mesi prima, sull’epidemia di Ebola in atto – un fotoreportage del 2019 pubblicato su varie testate [N.d.A.] – quindi credevo di essere per certi aspetti “preparato”. Invece no. Come fotografo, fui assegnato al Dott. Antonio Nouvenne e lo seguii tra i malati. Ne rimasi affascinato per la sicurezza con cui si muoveva in quella che per lui era semplice routine; e mentre io sentivo i battiti del mio cuore in gola, con lui ci muovevamo tra i corridoi come se da quel virus sconosciuto noi fossimo immuni. Lui continuava a ragionare ad alta voce, a porsi domande, proporre, fare e disfare tesi. Analizzava, guardava in faccia il nemico, senza mai far trasparire il minimo turbamento. Parlo di marzo e, a marzo, il nemico, non era il Covid, era ancora l’ignoto. Oggi il Covid inizia ad avere una forma, quasi ci conviviamo, ma al tempo era qualcosa di completamente nuovo. E la sua sicurezza, non tanto nei confronti del virus in sé, ma nei confronti dell’ignoto, ha reso me meno timoroso. Da lì ho iniziato a farmi altre domande: chi mi porta via di notte l’immondizia sotto casa? Chi si assume la responsabilità di toccare questi sacchi, quando a noi veniva addirittura detto di disinfettare la spesa? La spesa: chi è quella donna alla cassa dietro la mascherina? Sapere che gente come Nouvenne, o Romina, o Gianni, o Annarita e altri come loro fossero fuori per noi, che ci guardavano le spalle, mi ha fatto sentire protetto. Quindi, confrontandomi con Luca, abbiamo cercato un modo per celebrarli, mostrando i loro volti senza mascherina, con la volontà che questi volti raggiungessero il maggior numero di parmigiani.
G. L. SIGNAROLDI: Il rapporto con Marco è qualcosa che va oltre il professionale, forse anche oltre l’amicizia; a volte ci troviamo a guardare le stesse cose allo stesso modo, anche le cose piccole, soprattutto le cose piccole. Ricordo un giorno che eravamo a Macerata per uno shooting e, fuori dalla porta della casa che ci ospitava, il lembo di un grembiule mosso dal vento addosso ad una signora appollaiata in cima alla strada ci affascinò a tal punto che ne parlammo per tutta la serata. Ma questa volta, oggi come durante il primo lockdown, non si tratta di una cosa piccola. Durante quei giorni in agenzia c’ero solo io, tutti i miei collaboratori e soci a casa in smart-working. Eravamo in pieno trasloco della sede, un vero e proprio bianco, stucchevole e immobile momento di sospensione. Le strade deserte, l’aria da respirare che faceva paura, il rumore dei passi che chiedevano un muto ristoro ai pensieri. La voglia di fare qualcosa per gli altri era fortissima, senza pensare a nient’altro che dare un contributo. Quando Marco mi disse che era entrato in trincea, all’ospedale della nostra città, ho visto con i suoi occhi tutte le risposte alle domande che frullavano vertiginosamente nella mente. E quelle risposte erano i volti delle persone che, in silenzio, si mettevano in gioco ogni giorno per garantirci la stessa vita di cui ogni persona ha diritto. Dietro la mascherina, oltre il virus.
Una sorta di viaggio in quella Parma designata ad essere Capitale della Cultura Italiana 2020 e che, in un certo qual modo, omaggia la propria comunità attraverso il vostro progetto. Un omaggio che tappezzerà la città per un mese e che si propone di entrare nel nuovo quotidiano urbano. In che maniera questo accadrà e con quale forza desidera dialogare con le persone?
M. GUALAZZINI: In quanto fotogiornalista il mio lavoro trova la sua principale realizzazione una volta pubblicato su un giornale, destinazione che in questo caso non ci sembrava funzionare. Dato che Signaroldi si occupa di comunicazione, l’idea è stata appunto quella di usare una “comunicazione” che potesse davvero raggiungere tutti. E quale tra tutti i mezzi a disposizione poteva soddisfare al meglio questa necessità? I cartelloni pubblicitari. Quindi, una comunicazione seriale, povera, immediata, all’aperto, senza barriere e senza il rischio dei così temuti assembramenti. Dare ai cartelloni pubblicitari qualcosa che non fosse un messaggio commerciale, ma un monito, un memento. I ritratti li nobilitano, non vendono nulla, anzi, quasi assumono un valore civile. La gente passa, e tutto d’un tratto riconosce qualcuno che forse ha già intravisto e che gli sembra di conoscere. E non è il giocatore di serie A testimonial di un determinato shampoo, ma la cassiera che ha visto 5 minuti prima, il farmacista, la badante del vicino. Perché è lì celebrata come una star? Ed è proprio in quell’istante che si dovrebbe creare il cortocircuito, innescare una curiosità nel passante distratto e concretizzare il messaggio, instaurando un dialogo tra il vissuto del singolo e la comunità in cui si rispecchia, o viceversa.
M. ILLICA MAGRINI: Il coinvolgimento urbano punta sull’impatto dell’immagine fotografica. Oltre a trovarsi in luoghi pubblici e inaspettati, i ritratti mostrano persone comuni che ci raccontano come, nei mesi estenuanti del lockdown, molti hanno lavorato perché nessuno restasse da solo. Un messaggio visivo che, oltre a offrire speranza, intende farci sentire parte della stessa battaglia che, purtroppo, non è ancora finita.
Resilienti 2020 si racconta attraverso uno sguardo, un’indagine fotografica. Chi sono i soggetti che avete scelto e come si relazionano con la storia della città e il suo stravolgimento dovuto al coronavirus?
M. GUALAZZINI: La scelta, al di là di due o tre persone che volevo, dovevo, sentivo la necessità di fotografare – come il Dott. Nouvenne che è stato la scintilla dell’intero progetto – è stata al limite “dell’aleatorio”. Abbiamo subito individuato dei macrosettori: il volontariato, la scuola, medici, le RSA, i media e poi abbiamo selezionato dei soggetti che corrispondessero a quei requisiti “comuni” che cercavamo. Prendendo un settore a caso, come le farmacie, i farmacisti che si sono esposti erano tanti, tantissimi. Non esiste una vera risposta a “perché questo e non quello”… il farmacista poteva tranquillamente non essere Filippo Sicuri, ma chiunque fosse stato partecipe e attivo in quel periodo. Spero solo che “gli altri farmacisti” capiscano che quel Filippo diventa semplicemente una sorta di emblema di tutti gli altri… perché il progetto parte da Parma su 20 soggetti, ma è esponenziale e replicabile alla N in qualunque città di qualunque nazione.
P. GERBONI: I soggetti sono persone comuni che nel loro piccolo hanno dato una grande testimonianza di resilienza. Sono la prima linea, sono il simbolo della comunità, della città che nonostante tutto non cede. Ognuno di essi rappresenta una categoria sociale (un’infermiera, un dottore, una mamma, il responsabile della Croce Rossa ecc…) anche se abbiamo dovuto fare delle scelte, idealmente il numero di categorie poteva essere molto ampio. I soggetti sono immersi nella città, esiste sempre un dialogo con l’ambiente che li ospita: a volte è dichiarato, altre volte più sussurrato ma con lo stesso filo conduttore. Il Covid ha stravolto la nostra vita e gli ambienti in cui viviamo ma questi piccoli grandi gesti di persone normali ci danno forza e speranza per il futuro.
La mostra, ideata come apparato urbano effimero, si storicizza, però, attraverso un sito in cui sono raccolte alcune testimonianze fotografiche ed editoriali; resilienti2020.it è una forma digitale di R_Esistenza?
G. L. SIGNAROLDI: Il mondo è cambiato molte volte, nel corso della storia, e sta cambiando anche adesso. Il Covid ha cancellato le ultime resistenze alla rivoluzione digitale ma lo schermo non è un sostituto delle nostre emozioni. Ciò che siamo, ciò che siamo stati e saremo dipende solo da noi e dal modo in cui sappiamo utilizzare gli oggetti che la tecnologia ci mette a disposizione. Resilienti2020.it è uno strumento al servizio dell’idea progettuale, un’estensione digitale che amplifica il messaggio della mostra effimera e lo porta nella vita delle persone che vogliono partecipare al racconto. Il virus ha cambiato radicalmente, e per sempre, le nostre abitudini: come mangiamo, come ci relazioniamo con gli altri, come facciamo sport, come lavoriamo. Anche come partecipiamo alla cultura, che rappresenta il vero antidoto alla pandemia. Perché arriva diretta ai nostri cuori e alle nostre menti, laddove costruiamo la vera R_Esistenza.
M. ILLICA MAGRINI: Per affiancare le immagini ho raccolto e scritto le testimonianze dei soggetti ritratti. I testi sono frutto di interviste sulle loro scelte e le azioni che hanno messo in atto durante il lockdown di primavera. È stato uno scambio molto intenso: alcuni di loro condividevano per la prima volta il vissuto di quei giorni così duri. Ho scelto quindi di scrivere i testi con la forma della prima persona, per liberarli il più possibile dalla mia presenza giornalistica. Con la squadra di lavoro, abbiamo convenuto fosse la cosa migliore: ci tenevo che le parole arrivassero come erano arrivate a me, nel modo più puro, caldo e diretto possibile. Sul sito i testi diventano così parte integrante del racconto fotografico per addentrarsi in ciò che queste persone hanno provato, pensato e visto. Credo sia una parte importante del progetto: un modo persistente per raccontare questi tempi che non sono fatti solo di rabbia e di dolore, ma anche di un’umanità che resiste, nonostante tutto.
La resilienza è anche un atto della memoria?
M. GUALAZZINI: Credo che la mente tenda ad elaborare il trauma e a dargli una forma per riuscire a metabolizzare e andare oltre… non credo che la resilienza in sé sia per forza un atto della memoria. Anzi, non escludo che in alcuni casi, come difesa ad un trauma, si possa tendere a rimuoverlo completamente. È la storia, ed ancora di più quando è collettiva, che ce lo restituisce. Citando Manzoni: la storia “schiera di nuovo in battaglia” i protagonisti, quei giorni e quelle notti terribili. E quando succederà, non ora, ma tra anni, quando ci dovremo confrontare con questo trauma che avremo affrontato e superato come collettività, spero che anche attraverso questi ritratti rimanga testimonianza di quello che queste persone hanno fatto per noi.
P. GERBONI: Deve esserlo. Quello che abbiamo passato sarà studiato nei libri di storia: le persone fanno la storia. È importante non dimenticare gli sforzi fatti. Porterò sempre dentro di me la potenza di questi volti e le loro storie.
G. L. SIGNAROLDI: Credo che la memoria sia un ingrediente fondamentale della resilienza. Penso che la resilienza sia il frutto del ricordare con le immagini, una dimensione che riconfigura la visione di un mondo nuovo, o almeno di una delle mille versioni di esso: è il nostro saper vedere, saper trasformare il modo in cui sapremo stare con gli altri, in cui sapremo evolvere la nostra personale idea di comunità.
M. ILLICA MAGRINI: Credo che la resilienza agisca in modo fisico e profondamente intimo nelle persone, ma anche nelle collettività. È di fatto anche un atto di memoria che permette di attingere dall’esperienza per ritrovare equilibrio anche dopo le scosse più brusche. In questo senso, il nostro progetto intende aiutare a inscrivere queste testimonianze nel nostro corpo sociale, perché solo se ne avrà memoria potranno essere fonte di nuova forza e slancio.
Il racconto di Resilienti 2020. Dietro la maschera, oltre il virus da parte di chi lo ha immaginato, vissuto, realizzato e pubblicato è il contraltare di un tempo sospeso che non s’arrende e che tenta, in tutti i modi, di scrivere un pezzo di storia, un memento mori ma anche un memento vitae. Che la resilienza sia un aspetto della memoria – negata o rinnovata – poco importa, ora. La resilienza posta in essere dal questo progetto indaga con forza e potenza espressiva il non visto, parallelo di quell’ignoto che il Covid-19 ha portato al centro di una scena vuota e colma al tempo stesso. Essere resilienti è un modo per comprendere, per aggrapparsi alla conoscenza e trarne un salvifico tragitto. Spesso, purtroppo, il lieto fine non c’è ed ecco che, un “progetto di mostra effimera” come quella che veste Parma in quasi 100 punti delle sue strade, senza badare a centro o periferia, è quel che Gualazzini chiama “corto circuito” poiché esso deve dar vita a nuove sinapsi, come flash nel buio dell’esistenza, nella grande metafora che è la vita umana.
© Fotografie dal progetto RESILIENTI 2020. Dietro la maschera, oltre il virus. Ideato e realizzato da Marco Gualazzini (Ideazione e Reportage), Gian Luca Signaroldi (Ideazione, Comunicazione e Marketing), Pietro Gerboni (Reportage),Mariachiara Illica Magrini (Documentazione ed Esecuzione editoriale)
23 novembre 2020