di Chiara Ruberti
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Al centro stesso del romanzo c’è perciò […] un punto cieco, un minuscolo luogo attraverso il quale, in teoria, il lettore non vede nulla; ma la verità in pratica è che il significato profondo di tutto il romanzo si trova lì.
Javier Cercas, Il punto cieco, Guanda Editore, 2016, p. 51
Se si immagina un percorso terapeutico come una sorta di riscrittura, di nuova narrazione del sé, gli oggetti che compongono Portraits of a Therapy sono proprio quel punto cieco di cui parla Cercas. Sono quel luogo dove la sintesi, lontana dall’essere una riduzione, si materializza in un oggetto che racchiude in sé il significato profondo dell’esperienza psicoterapeutica.
Portraits of a Therapy nasce dalla collaborazione tra la fotografa Martina della Valle e le due psicoterapeute Valentina Campanella e Anna Buttignol.
Tutto inizia con Campanella e Buttignol che decidono di rappresentare il proprio percorso terapeutico, passaggio fondamentale della propria vita personale ma anche professionale, in un oggetto che possa essere fotografato.
Vengono poi coinvolti pazienti che si trovano alla fine della terapia, ai quali si chiede di compiere lo stesso esercizio di visualizzazione, una sorta di assegnato immaginativo.
Si va così a costituire un archivio di immagini, di segni che raccontano ciascuno di un’esperienza terapeutica unica e irripetibile. Il risultato è una sorta di caleidoscopio, che mette in atto una continua rinegoziazione dei punti di vista. Quello del paziente che sceglie l’oggetto, frutto della relazione e del percorso con il terapeuta; quello del terapeuta che in quell’oggetto riconosce immediatamente o forse, in alcuni casi, deve cercare l’essenza di passaggi e dinamiche del proprio lavoro con il paziente; quello della fotografa che l’oggetto vede per la prima volta e di esso diventa spettatrice e poi attrice; di noi tutti che lo guardiamo, nella relazione diretta con esso – alla ricerca di un vissuto altro così come delle possibili risonanze con la nostra storia personale – e in quella mediata con la sua rappresentazione.
Come ha affermato Nancy Amendt-Lyon, psicoterapeuta della Gestalt, “nell’ambito dell’arte, così come nella psicoterapia, l’obiettivo è portare in primo piano qualcosa di nuovo, in modo che dalla trasformazione o dalla riorganizzazione di vecchi elementi una nuova configurazione possa emergere”. In questo risiede a mio parere l’aspetto più interessante e più convincente di POT.
Il progetto si alimenta, tanto nella sua creazione quanto nella sua fruizione, della fertilità della trasformazione; richiede a tutti i soggetti coinvolti lo stesso impegno immaginifico e, letteralmente, apre finestre su mondi altrimenti relegati all’esperienza intima, che viene invece resa universale, per di più attraverso un processo di per sé squisitamente semplice.
Portraits of a Therapy ci porta a fare anche un’ulteriore riflessione sul ruolo della fotografia. Che dà vita a una narrazione necessaria e si esime qui, finalmente, da una poetica e da una retorica autoriferite, grazie a una ricerca che si inserisce molto coerentemente nella pratica artistica di Della Valle, dove la serialità dell’archivio è un approccio sistematico al reale e gli oggetti sono da sempre molto presenti e, come lei stessa afferma, costituiscono “una sorta di dispositivo narrativo che innesca un processo di immaginazione in chi lo osserva e in parte lo riconosce anche come suo”.
Mi resta, in conclusione, una curiosità: c’è tra gli oggetti di POT o della sua guest section, alla quale con piacere ho partecipato anche io, l’oggetto di Martina della Valle?
Quando abbiamo iniziato a lavorare insieme al progetto, abbiamo tutte e tre sentito il desiderio di testare per prime le regole del gioco. Ciascuna di noi si è, infatti, attenuta alle stesse linee guida seguite successivamente da chi ha partecipato a POT.
Questo ha portato anche noi all’individuazione dei nostri oggetti, che sono quindi entrati a far parte dell’archivio di immagini.
Tra l’altro, la tua domanda ci offre l’occasione di presentare – e aggiungiamo per la prima volta – una nuova sezione “speciale” di POT.
In questa seconda fase abbiamo, infatti, esteso il progetto a persone che riteniamo interessanti per la nostra ricerca, ad esempio che lavorano in ambiti artistici o nel campo della psicologia.
Spesso si tratta di persone con le quali eravamo già in contatto, ma in altri casi abbiamo tentato la fortuna e posto la sfacciata domanda “Hai mai affrontato un percorso psicoterapeutico?” a perfett* illustr* sconosciut*!
Non nascondiamo che ci sia capitato anche di non ricevere alcuna risposta. Ma, al contrario, con altre persone abbiamo iniziato un interessantissimo scambio virtuale.
A differenza della fase originale di POT, a* nostr* ospiti chiediamo di mandarci una foto dell’oggetto-simbolo scattata da loro stess*. Vogliamo, infatti, scostarci dallo stile iniziale del nostro archivio, rendendo questa nuova serie di immagini riconoscibile come sezione distinta dalla prima.
Questa nuova fase nasce anche dal desiderio di giocare con i due contrapposti ambiti – pubblico e privato – invitando chi, per scelta professionale, è spesso sotto i riflettori ad aprire per noi una porta che si affaccia sul “personale”.
Siamo curiose di scoprire quante persone siano disposte a dichiarare apertamente di aver fatto una psicoterapia.
Questo è, infatti, uno degli obiettivi di POT: rendere più accessibile l’idea stessa di terapia, facendola entrare nel ventaglio delle ipotetiche scelte che tutt* noi abbiamo la possibilità di fare durante la nostra vita.
Insomma, vorremmo che il nostro archivio di immagini contribuisse a rappresentare un nuovo ritratto della psicoterapia, liberandola da significati legati a paura o vergogna, e avvicinandola di più alle persone.
Fotografie: © POT
20 ottobre 2020