di Federico Busonero
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Luglio 2020: apprendo dal The New York Times la notizia della scomparsa di Paul Fusco e rimango sgomento, incapace di mettere un ordine nei miei ricordi, di porgere un commiato per l’amico scomparso. Ho dovuto lasciar passare del tempo, il tempo del lutto necessario, prima di poter scrivere. Sapevo che era gravemente malato, l’ultima volta che potei parlare con lui al telefono, nel 2016, mi aveva fatto capire che non avrebbe più lasciato quel luogo di cura. La sua voce era già distante, lontana; mi disse che non era più in grado di fotografare, non ne aveva la forza. Non volle che andassi a trovarlo, dopo un po’ di tempo smise di rispondere al telefono. Rispettai il suo desiderio di silenzio, come se egli avesse voluto uscire senza clamore da quel mondo che per lunghi anni aveva attraversato per noi e reso più accessibile con il suo sguardo profondo. Adesso che Paul non è più con noi, posso solo conservare dentro di me la memoria di quei giorni provvidi, trascorsi con lui in Italia e, prima di allora, a Seattle e NewYork.
Aveva accettato con entusiasmo il mio invito di venire a Firenze, nell’Agosto del 2008, per un seminario sulla fotografia, ospiti di cari amici, Stefano Vincieri e Federica Parretti, i quali avevano appena costituito un’associazione culturale, Il Palmerino. Anne Sanciaud-Azanza, curatrice a quel tempo del Dipartimento di Fotografia Contemporanea presso la Biblioteca Nazionale di Francia, ci raggiunse da Parigi. Andrea Ulivi, editore di Edizioni della Meridiana, portò con sé alcuni suoi studenti. Furono tre giorni molto intensi e conviviali: Paul fu oltremodo disponibile con il pubblico, con i giovani in particolare, ansiosi di far vedere le loro fotografie al maestro, come lo chiamarono. Ricordo che, nel guardare i loro lavori, diceva agli studenti: “You have to ask yourself why you take a photograph. It does not matter what and how you photograph, what is important is that you know why you photograph something rather than something else”. [Dovete chiedervi perché fate una fotografia. Non importa cosa e come fotografate, l’importante è che sappiate perché fotografate qualcosa piuttosto che qualcos’altro].
Ripetemmo l’incontro l’anno dopo nell’occasione della retrospettiva dedicata a Paul che avevo proposto al Comune di Siena. Magnum Photos di Parigi presentò in quella mostra, una collaborazione tra il Comune e l’agenzia Magnum, le fotografie dei bambini deformi che Paul aveva fatto a Minsk – la conseguenza indicibile dell’esplosione nucleare di Chernobyl – e poi alcune fotografie dalle serie RFK Funeral Train e Bitter Fruit. Ad oggi, nel 2020, le fotografie di Bitter Fruit che mostrano le conseguenze della guerra irachena, non sono state pubblicate. Forse è troppo scomodo e l’America non è ancora pronta a fare i conti con le conseguenze di quella guerra e di quei giovani morti.
Incontrai per la prima volta Paul Fusco nel 2004 in occasione della presentazione di Bitter Fruit, RFK Funeral Train, Chernobyl Legacy ed altri suoi lavori al Seattle Art Museum. In quell’occasione, Paul ed io fummo invitati dal Photographic Center Northwest ad un dibattito sull’attualità della fotografia di documentazione. Quel che mi colpì allora di Paul, mentre discuteva del fatto che la democrazia fosse in pericolo – “In the United States democracy is dead”, disse (in riferimento al fatto che le autorità avevano cercato di impedirgli di fotografare i funerali dei soldati americani caduti in Iraq) – fu lo sguardo. Nei suoi occhi chiari e straordinariamente espressivi, in quel viso scavato, colsi un senso di tristezza, quella tristezza che nasce da una lunga esperienza, dall’osservazione consapevole delle cose, dalla cognizione dell’animo umano.
Lo sguardo di Paul Fusco è lo sguardo di colui che ha visto e osservato molto. Lo sguardo di chi ha scelto non solo di fermare, per un istante, su di una pellicola, la sofferenza dell’altro, ma di farla propria. Dentro quell’immagine-documento, invisibile, eppur presente, c’è lo sguardo del fotografo – la sua visione, il suo essere. E noi questo lo percepiamo, lo sentiamo. Le sue immagini entrano dentro di noi. In esse è racchiusa la memoria di moltissime storie personali, ciascuna diversa, eppure accomunata all’altra dal medesimo impotente grido di dolore. Nelle singole storie di Bitter Fruit, e di ogni altra vicenda di cui è stato testimone, Paul Fusco ha colto l’universalità della sofferenza umana. Nel guardare queste immagini non possiamo fare a meno di provare sgomento dinanzi all’attualità del dolore – ne siamo partecipi e ne prendiamo coscienza.
Lo sguardo di Paul Fusco è lo sguardo attonito dei bambini deformi che abbiamo colpevolmente dimenticato negli orfanotrofi di Minsk, è lo sguardo disperato dei padri, delle madri, delle mogli, dei figli dei soldati caduti in Iraq per una guerra ingiusta e insensata, è lo sguardo smarrito dei cittadini americani che vedono nel passaggio del treno con la bara di Robert Kennedy la fine di un sogno e di una speranza, è lo sguardo delle vittime della repressione nel Chiapas cosi come a New York, è lo sguardo senza speranza dei malati di AIDS della California. Lo sguardo di Paul Fusco – fotografo-testimone per eccellenza – è lo sguardo di tutti coloro che sono ai margini della storia, oppressi e dimenticati da un’ingiustizia sorda e indifferente. Nelle sue fotografie i protagonisti sono i non-protagonisti.
Dall’autunno del 2003, Paul Fusco ha fotografato, con metodica pazienza, i funerali dei soldati americani caduti, viaggiando a lungo nelle anonime città di provincia, in quell’America lontana dal palcoscenico di New York e Hollywood a cui il mondo guarda con invidia. Bitter Fruit può essere lungi da una conclusione, eppure le fotografie di Bitter Fruit, Il Frutto Amaro – il prezzo incalcolabile pagato per questa guerra – acquistano oggi un’importanza decisiva poiché da un lato ci obbligano, nel mostrarci la sofferenza degli altri, a non dimenticare una guerra in gran parte non vista, dall’altra ci offrono un ritratto della nazione americana, della sua gente, delle famiglie, delle comunità riunite attorno ai feretri.
Si può leggere Bitter Fruit come una testimonianza dell’unicità dell’America – della sua necessità di trovare un’identità comune nella sventura. Di questa identità è simbolo la bandiera, presente in quasi ogni immagine: la bandiera che l’apparato militare, nella cerimonia ufficiale, consegna, accuratamente avvolta, alle famiglie delle vittime, la bandiera presentata dai veterani del Vietnam ad una vedova, in un gesto di saluto e omaggio finale, la bandiera distesa da un ragazzo e da una donna nel cimitero sotto un cielo livido di neve, le bandiere sventolate dai bambini al passaggio del feretro del padre. La bandiera è una presenza, un ricordo, un souvenir, un conforto, una catarsi. Intorno ad essa si stringono, in uno stato di composta disperazione, i protagonisti di Bitter Fruit come per rassicurarsi che quella perdita possa essere compresa e giustificata in nome di una necessità superiore.
Quando chiesi a Paul quale forza lo sostenesse nel continuare il suo progetto mi rispose di non avere altra scelta: “I need to show what they have done, what they have done to us here as I have shown what they did in Chernobyl and everywhere else”. [Devo mostrare quello che hanno fatto, quello che ci hanno fatto qui, come ho mostrato quello che hanno fatto a Chernobyl e in ogni altro luogo]. In queste parole risiede il significato profondo di tutta l’opera di Paul Fusco, come se egli, nel mostrarci quello che hanno fatto, qui, negli Stati Uniti, nella tragedia di quest’altra guerra, si facesse carico della solitudine di coloro ai quali è stata tolta la speranza. Le immagini di dolore dei funerali di Bitter Fruit si ricollegano idealmente a quelle di RFK Funeral Train del 1968 quando, ci ricorda Paul, “hope-on-the-rise had again been shattered and those in most need of hope crowded the tracks of Bobby’s last train, stunned into disbelief, and watched that hope trapped in a coffin pass and disappear from their lives”. [La speranza crescente era stata di nuovo infranta e i più bisognosi di speranza si affollarono lungo i binari dell’ultimo treno di Bobby, sgomenti per l’incredulità, e guardarono quella speranza, imprigionata in una bara, passare e scomparire dalle loro vite]. Di nuovo, in Bitter Fruit, la speranza è stroncata, per un atto violento, e negata a “those who need it most” [a coloro che più ne hanno bisogno].
Dobbiamo essere grati a Paul Fusco per la sua determinazione nel metterci dinanzi a quello che hanno fatto, alla sofferenza che accomuna le vittime di ingiustizie e guerre, senza alcun confine. Si può discutere oggi se le immagini di fotogiornalismo abbiano creato in noi un’assuefazione e siano quindi divenute ridondanti, ma non possiamo negare che le immagini di Paul Fusco siano un documento potente e tragico, più che mai necessario nell’era dell’informazione elettronica.
“Because there is the suspicion that photographs do not always tell the truth, the role of the concerned photographer and the independent sceptical photojournalist is more important than ever. Bearing witness is a difficult, and these days, often a thankless task but there is only one alternative”. * [Poiché c’è il sospetto che le fotografie non sempre dicano la verità, il ruolo del fotografo impegnato e del fotogiornalista indipendente e scettico è più importante che mai. Essere testimoni è un compito difficile e, di questi tempi, spesso ingrato, ma è l’unica alternativa possibile].
Le fotografie di Paul Fusco costituiscono un memento mori, un monito di quel che noi siamo e di quel che non dovremmo essere. Il fotografo vuole essere, con una straordinaria efficacia, testimone del suo tempo, nella migliore tradizione della “Concerned Photography”, affinché quello che è accaduto non sia dimenticato e condannato all’oblio. In questo le sue immagini sono profondamente personali, ma non sentimentali o moralistiche. Esse sono autentiche.
* Martin Parr and Gerry Badger, The Photobook: A History, Volume II, p. 241. Phaidon, London, 2006.
28 dicembre 2020