di Azzurra Immediato
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La regione artica, nell’immaginario comune, è un luogo che sosta ai confini della nostra geografia umana – per i più romantici è anche una terra vicina alla Lapponia di Babbo Natale ma, questa, è tutta un’altra storia. L’Artide lo conosciamo attraverso epici racconti di esploratori e, in verità, come luogo simbolo di una mala umanità, intesa come conseguenza del pessimo vivere umano sul pianeta che ci ospita. Più in generale, l’intero Artico è considerato un luogo immaginifico, ostile ed ammaliante, immerso in una nivea purezza, inospitale ed intoccabile, a tratti inafferrabile e dotato di un’aura del tutto inspiegabile.
Eppure, c’è chi come Paolo Verzone ha deciso di spiegarlo attraverso le sue fotografie, un racconto per immagini che è anche un progetto a lungo termine, avviato nel 2014 ed ancora in fieri. Una narrazione che mette al centro del racconto chi quelle recondite distese di ghiaccio le abita: i ricercatori della comunità scientifica internazionale di stanza in Artide. Per Photolux Magazine, la parola a Paolo Verzone.
Arctic Zero: un progetto fotografico, una tappa nel viaggio esistenziale di un fotografo, di un uomo, un racconto per immagini che narra il cambiamento climatico. Come è nato questo progetto?
Il progetto è nato da un assegnato di Le Monde nel 2014, quando mi hanno proposto di seguire un loro giornalista alle isole Svalbard per documentare il lavoro di ricercatori e scienziati in una base scientifica.
Molti dei tuoi ultimi progetti fotografici rasentano i limiti dell’inenarrabile, mutuando il concetto fondante del reportage ma traducendosi in qualcosa d’altro. Arctic Zero lascia emergere la bellezza dell’effimero, la delicatezza di un ambiente unico nel suo genere che, forse, nella sua silente maestosità, è allegoria della debolezza umana. Al cospetto di quei luoghi, cosa accade? L’obiettivo riesce a “registrare” ciò che davvero “si vede”?
No, non ci riesce, ed è proprio il tentativo continuo di provare a restituire quel mondo che mi spinge a tornarci. L’Artico è un luogo mentale prima che fisico, è una specie di ultima frontiera prima dello spazio, è un luogo dove rispondi di te stesso come in nessun altro luogo: la natura è implacabile e selvaggia e tu devi trovare la tua dimensione, il tuo spazio al suo interno. Non hai nessuna rete di sicurezza, rispondi immediatamente e di persona degli errori che commetti. È affascinante l’idea di ricominciare a rispondere di sé, non ci siamo più abituati.
L’Artico luogo abitato. Che umanità hai scoperto ai confini del mondo?
È un’umanità molto impegnata, che lavora tantissimo: l’Artico è un luogo che ti impegna costantemente, senza orari prestabiliti. È un’umanità che tiene molto da conto l’altro perché, oltre che essere una vera compagnia di cui godere, potrebbe salvarti la vita.
La tua “documentazione” è riuscita a fondere diversi aspetti del vivere comune e quotidiano di una comunità internazionale che, per scopi scientifici, vive nell’Artico. Ciò che affiora dagli scatti è un compendio umano oltre che professionale, unito dalla volontà di raggiungere scopi atti a salvare il pianeta o, quantomeno, a preservarlo per il futuro. Se, da un lato, il tuo progetto ricorda le prime raccolte fotografiche antropologiche, è chiaro, invece, che ogni immagine è icona di un messaggio sotteso. Ti va di raccontarlo?
Parto dal principio che le mie immagini non contribuiranno a salvare il mondo ma mi piace l’idea che possano generare una curiosità nello spettatore che, grazie a questa, abbia voglia di saperne di più; è lo stesso processo che ho seguito io durante i miei viaggi, vedo qualcosa che è interessante su più livelli e lo fotografo, rendendomi conto che, nella stessa immagine, ci sono più componenti: una estetica, una a volte surreale ed una scientifica; se poi ho la fortuna di coglierne anche una di mistero (quindi non spiegabile ma percepibile) mi ritengo fortunato e soddisfatto.
La comunità scientifica ti ha accolto, reso partecipe di una quotidianità ben diversa da altre che hai affrontato per differenti tuoi lavori, in un momento in cui la questione “ambientale” è percepita ad ogni latitudine come emergenza. Cosa ti ha mostrato, in una prospettiva reale e ravvisabile nel nostro futuro prossimo?
Ho visto che è in atto un cambiamento radicale dell’ambiente che ci circonda. Non c’è solo l’emergenza del riscaldamento globale da affrontare ma anche l’inquinamento, la presenza di plastica a latitudini e in luoghi non immaginabili prima. Tuttavia, per me, la cosa più importante è stato vedere come lavorano quelli che ci hanno dato le prove di tutti questi cambiamenti e con quali strumenti lo hanno fatto.
Le foto di Arctic Zero sono caratterizzate da una cristallizzazione straordinaria; la tua cifra stilistica, se così possiamo dire, contraddistinta dal dialogo che le luci e le ombre aprono con lo spazio circostante, è sublimata dalla relazione che intercorre con l’ambiente polare. In che maniera la Natura è intervenuta negli scatti e nel racconto umano che hai prodotto?
La Natura interviene sempre negli scatti a qualunque latitudine, è dalla sua osservazione che nasce il punto di vista. La fase di comprensione e osservazione dello spazio è più importante di quella dello scatto, per esempio nell’Artico ci sono delle luci con colori incredibili e con una durata molto variabile (da zero a ventiquattro ore a seconda della stagione). Infatti, dopo aver osservato, ho adattato tutto per quel tipo di mondo (lo considero un universo a sé, con sue regole e usi).
Sappiamo che Arctic Zero è un progetto non del tutto terminato, ovvero ancora in fieri nella tua volontà di raccontare e condividere uno sguardo ai confini del mondo; cosa credi ci sia ancora da dire, cosa ancora da interrogare?
La cosa che più mi interessa è quello che c’è da scoprire; nel corso del 2020 farò più viaggi nell’Artico, ognuno con una diversa prospettiva: le miniere di carbone, i ghiacciai, la vita sociale a quelle latitudini, il tutto alle Svalbard per un progetto di libro monografico su quelle isole. Poi, nei prossimi anni, andrò ad esplorare altri luoghi lungo il circolo polare artico, Groenlandia, Siberia, Alaska. La realtà è che questo progetto non vorrei mai finirlo…
D’obbligo, ora, una “avventura di Verzone”; in un progetto dal carattere così lirico e a tratti metafisico e surreale, sarà pur accaduto qualcosa di assolutamente incredibile che val la pena di annoverare tra le “impensabili” ed assurde esperienze di vita di un fotografo, di cui lasciar testimonianza…
Le vere esperienze che ho provato e trovato indimenticabili sono quasi tutte sensazioni fisiche: respirare aria che ha quasi un sapore, mettere la mano in un mare di metallo freddo, vedere un sole che sorge per 5 minuti per poi scomparire con dei colori incredibili; provare una stanchezza fisica come mai prima per aver camminato nella neve 10 ore di seguito, non sentire più il freddo a temperature anche molto basse, il suono del ghiaccio mentre ci cammini sopra per centinaia di metri.
Progetti per il futuro?
Ho sicuramente un appuntamento importante nel 2021: tornare insieme al mio amico Alessandro Albert a Mosca, per realizzare il quarto capitolo del nostro lavoro sui Russi, cominciato nel 1991. Ci siamo poi andati di nuovo nel 2001 e 2011 ed ora torneremo dopo trent’anni, non vedo l’ora!
Fotografie: © Paolo Verzone
17 gennaio 2020