di Dario Orlandi
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Nicolò Filippo Rosso è un fotografo piemontese dal 2014 di base a Bogotà, città da cui lavora a progetti di documentazione sulle questioni politiche e ambientali sudamericane.
Uno dei fenomeni ai quali ha dedicato maggiore attenzione negli ultimi anni è la migrazione di quasi cinque milioni di persone in fuga dal Venezuela per sottrarsi alle durissime condizioni economiche, politiche e sanitarie del loro Paese: il racconto di questa crisi umanitaria è raccolto nel progetto Exodus.
Con questo lavoro Nicolò è stato premiato nella sezione Contemporary Issues del World Press Photo 2020. Come spesso accade, un premio internazionale è un’ottima occasione per ritrovare vecchie conoscenze, aggiornarsi sulle esperienze recenti e per confrontarsi sulla fotografia; il che – quando si parla di fotografi – equivale il più delle volte a interrogarsi sui passaggi e i cambiamenti di vita.
Avevo conosciuto Nicolò ad un workshop di Stanley Greene e Teun Van Der Hejden sul libro fotografico, organizzato al Linke di Milano nel 2013. Lo ricordo ancora come un incontro estremamente ricco e interessante, con una platea di partecipanti di primo livello che avevano già intrapreso o stavano avviando importanti carriere: Andrea Frazzetta, Mustafah Abdulaziz, Gianni Cipriano – per citarne alcuni a memoria – e Nicolò. Mite, gentile, autenticamente appassionato alle questioni sociali e ambientali di cui di lì a poco avrebbe fatto il centro della sua ricerca fotografica, spostandosi stabilmente in Colombia.
Ho còlto dunque l’occasione di questo importante riconoscimento per ricontattare Nicolò, approfondire il suo bel progetto e farmi raccontare come si è evoluta la sua vita di fotografo.
Come si sta verificando l’esodo che racconti nel tuo progetto? Qual è la condizione dei profughi venezuelani?
La sensazione dalle frontiere è quella di un flusso ininterrotto. La maggior parte dei profughi arriva in Colombia per comprare cibo e medicine e fare poi rientro in patria, sono come dei migranti “pendolari”. Una parte si ferma in Colombia per brevi periodi, ad esempio per questioni sanitarie, a causa del servizio ospedaliero venezuelano al collasso. Un’altra parte, poi, prosegue verso paesi come l’Ecuador o il Perù dove ci sono condizioni economiche e di sicurezza; la Colomba rimane un paese molto violento.
Chi sono le persone che incontri e qual è il loro livello di consapevolezza sui fenomeni in corso?
La fetta più ricca della popolazione venezuelana e i dissidenti politici hanno lasciato il paese da anni, all’inizio della crisi. Adesso sono rimaste le persone più povere e con meno strumenti di lettura, persone abituate a vivere alla giornata. Certo lamentano anche i problemi legati ai diritti civili e alla violenza nel loro paese, ma le preoccupazioni principali riguardano la sopravvivenza materiale quotidiana e le questioni di salute.
Come vengono accolti i profughi dal governo e dalla popolazione colombiana?
A parte qualche caso isolato, non esistono fenomeni allargati di xenofobia: nonostante la rivalità politica degli ultimi anni, Colombia e Venezuela continuano a sentirsi repubbliche sorelle, anche perché il Venezuela nel corso del tempo ha ospitato molti colombiani che scappavano dai conflitti armati nel loro paese. Molti colombiani emigrati qualche anno fa in Venezuela adesso stanno rientrano in Colombia.
Vivi in Colombia dal 2014 e hai maturato un’esperienza profonda del territorio e delle sue questioni. In che modo si è evoluta la tua visione della fotografia come strumento per raccontare storie?
Rispetto al passato ho imparato che la più grande sfida per un fotografo è produrre immagini in linea con il proprio essere. Riguardando le mie fotografie, ad esempio, mi accorgo di aver scelto una certa inquadratura o di essermi innamorato di certi soggetti. Spesso non capisco il perché, ma lavorando sull’estetica dell’immagine la sensazione mi indica una direzione. La fotografia, insomma, mi ha aiutato a crescere come uomo.
Questa è una bellissima riflessione. In cosa pensi che la fotografia ti abbia aiutato a crescere non solo come creativo e professionista, ma anche come uomo?
In primo luogo, mi ha insegnato il senso di responsabilità. Cartier-Bresson diceva che se hai un talento, indipendentemente da quanto esso sia, ne sei responsabile. Ecco, la mia responsabilità è quella di provare a creare immagini efficaci, a “restituire qualcosa”, come diceva Stanley Greene. Questo passa attraverso un lavoro molto faticoso di studio e ricerca che ti porta a confrontarti con i grandi maestri e a fare i conti con i tuoi limiti. La fotografia ti insegna l’umiltà.
Infine, come accennavo prima, la fotografia mi ha aiutato a conoscermi molto più a fondo: ho capito che quando una foto mi piace è perché lì ritrovo me stesso e questo mi insegna molto su di me, in positivo e in negativo. A volte non sappiamo perché andiamo verso certe storie e una certa estetica; sono sentimenti e archetipi che ci spingono verso qualcosa. Solo dopo, magari, scopriamo che una cosa ci attrae per ragioni molto personali e profonde che sul momento non eravamo pronti a recepire o capaci di comprendere. Fotografare è conoscere sé stessi.
Fotografie: © Nicolò Filippo Rosso
2 giugno 2020