di Daniela Mericio
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Poetry is everywhere – La poesia è ovunque. È il titolo dello scatto che, nel 2019, si è aggiudicato il terzo premio al Fine Art Photography Awards ed è anche uno dei più noti tra quelli realizzati da Monia Marchionni. Un’immagine in cui hula hoop variopinti volteggiano in riva al mare mentre un’enigmatica presenza femminile dal volto coperto divide la scena con un Rottweiler che, immobile come una sfinge, sembra interrogare direttamente l’osservatore. L’immagine riassume la poetica dell’autrice marchigiana, astro nascente della fotografia italiana e vincitrice della scorsa edizione del Premio Ghergo – Giovane Talento con la serie Primo Amore, cui lo scatto sopra citato appartiene. L’approccio è quello della staged photography, il che comporta che la realtà non venga “oggettivamente” registrata o descritta, bensì costruita, messa in scena, come in una rappresentazione teatrale o cinematografica.
Primo amore è dedicato a Porto San Giorgio, città in cui Monia Marchonni (Fermo, 1981) dopo il periodo in cui ha lasciato le Marche per studiare, è tornata a vivere: “Il progetto è la narrazione visionaria del mio paese, ma soprattutto del ricordo che ne ho e del modo in cui lo percepisco. Un luogo che adesso ho ‘riconosciuto’ con uno sguardo autentico e più maturo. Solo con la maturità arriviamo a guardare le cose che conosciamo da sempre sotto un altro aspetto e le riscopriamo come uniche. Per questo ho scelto il titolo Primo Amore, perché il mio primo amore è stato proprio il mio mare, il mio paese dove tutto è cominciato, dove tutti i legami sono nati e ancora resistono” spiega Monia rispondendo alla mia ovvia domanda sulla genesi del titolo.
Un progetto a lungo termine sviluppatosi in un arco di tempo che unisce due estati, quella del 2019, una stagione balneare come innumerevoli altre, e quella del 2020 dominata dallo spettro della pandemia. Lontanissime dalla cronaca o dalla documentazione, le immagini restituiscono semplicemente la differenza di atmosfera dei due momenti – gli spazi vuoti e la solitudine invece della spensieratezza – ma rimandano ad altro, seguendo il filo di una narrazione del tutto personale.
I luoghi di svago inaccessibili dove la presenza di un bagnino pare ribaltare la realtà hanno sostituito i giochi sulla sabbia, le barche vuote sono subentrate ai voli di aquiloni, i legami interrotti dal distanziamento sono metaforicamente riannodati da intrecci di capelli. La spiaggia, il mare, il contesto sono sempre evocati, mai descritti, sono un palcoscenico in cui si incontrano sentimenti, emozioni, suggestioni. Non mancano le fotografie ambientate in inverno, ammantate da una sottile ed evanescente aura di mistero invece che dall’esplosione di luce e colori che pervade gli scatti del periodo estivo. L’impatto visivo per lo spettatore è forte, talvolta straniante; lo sguardo è catturato da scene ai limiti del surreale, dell’onirico, tuttavia non manca mai una vena ironica e giocosa, che fa associare il sorriso alla sorpresa.
Con estrema coerenza stilistica, Monia Marchionni narra visioni e costruisce intrecci dalle molte sfaccettature e dal finale aperto, prelevando porzioni di realtà, cogliendone il lato più insolito, ricostruendo meticolosamente la situazione che ha ideato e intende comunicare. Scenografa, regista, storyteller, la sua pratica fotografica alterna e unisce tutta una serie di ruoli e competenze. Attraverso il suo sguardo la fotografia diviene strumento duttile e affabulatorio, capace di rappresentare la realtà poeticamente, aprendo la via al simbolo e alla metafora.
L’incontro con la fotografia avviene durante il viaggio di nozze in Cile, nel 2014, quando Monia porta con sé la macchina fotografica per non lasciarla più: Never Again the fog in the desert, serie che ha ricevuto diversi riconoscimenti, è il suo personalissimo racconto del deserto di Atacama, pervaso del ricordo fantasmatico dei desaparecidos, vittime della brutalità del regime di Pinochet. Sensazioni tradotte in immagini rarefatte, divorate dalla nebbia, dove è rievocato – e ricostruito, ancora una volta simbolicamente – il dolore di donne e madri attraverso la rappresentazione fotografica. Il percorso artistico dell’autrice marchigiana, in effetti, prende le mosse da ambiti contigui ma diversi rispetto alla fotografia: gli studi all’Accademia di Belle Arti a Bologna, una seconda laurea in Lettere e Filosofia, la scelta di esprimersi attraverso installazioni in cui ambientare sculture. “Un linguaggio che non mi bastava più. Così mi sono avvicinata alla fotografia, mezzo completo per realizzare tutto quello che ho in mente. In un’installazione mancano le persone. Non è reale, è un qualcosa che crei e poi smonti, mentre una foto racchiude un breve istante – reale o immaginario – che è stato comunque vissuto e che grazie ad uno scatto esiterà per sempre.”
“Uso la fotografia per raccontare” continua Monia.” In una spiaggia non vedo una località balneare o turistica, ma un potenziale per ambientare una storia in cui agiscono personaggi. In un certo senso, creo installazioni con le persone.”
La narrazione segue intime ispirazioni, ma al contempo abbozza il ritratto di un territorio, sebbene filtrato da quanto l’immaginazione riesce a scorgervi. L’allestimento e la realizzazione coinvolgono un’intera comunità, in un circolo virtuoso di amici, parenti, conoscenze, collaborazioni, contatti casuali, che non di rado contribuiscono alla riuscita dello scatto. Talvolta, i personaggi sono attesi pazientemente e caparbiamente, come i pescatori locali che hanno accettato di impersonare sé stessi, in versione poetica, nell’immagine Pescatori di Stelle.
L’aspetto progettuale è imprescindibile, gli scatti sono preceduti da sopralluoghi e studi, ogni idea è fissata in un bozzetto che serve da canovaccio per la fase di ripresa: “Senza schizzi non mi muovo. Poi, al momento dello scatto tutto si svolge in mezz’ora, un’ora al massimo, anche perché, fotografando in luce ambiente, devo tenere conto delle variazioni della luce stessa. E di elementi diversi. Un esempio? La luna, che in una certa fotografia era prevista in una precisa posizione e quella doveva essere.” Tutto è definito, ma nulla è immutabile. Sulla scena può irrompere l’imprevisto, che, se funzionale al racconto, la fotografa è veloce nel cogliere al volo e a integrare nella composizione: “A volte il caso mi aiuta e interviene la variante che non ti aspetti”.
Attualmente, Monia Marchionni è al lavoro sul secondo capitolo dedicato a Porto San Giorgio: dopo il mare, l’attenzione si concentrerà sul centro storico dell’antico borgo e non solo. Le immagini avranno i toni bruni della terra al posto delle sfumature turchine della riviera, ma l’approccio sarà identico. La sfida è immortalare luoghi da cartolina trasformandoli in un set inconsueto per storie stupefacenti. “Avrò bisogno di tempo come al solito, per non sottovalutare nulla… perché lo straordinario è sempre dietro l’angolo. Del resto, il bello è, a distanza di tempo, percepire la luce che cambia e le stagioni che scorrono.”
Non è il primo lavoro consacrato dalla fotografa marchigiana al proprio territorio: è appena stato pubblicato da Giaconi Editore Fermo, Visioni Extra Ordinarie, il libro che raccoglie il progetto a lungo termine realizzato, tra il 2016 e il 2019, nella città natale dell’autrice. Serie in cui tra siti storici, parchi, palazzi e biblioteche siamo accompagnati in un itinerario alla scoperta di una Fermo inaspettata, dai contorni quasi fantastici.
Alcuni temi ed elementi sono ricorrenti nelle fotografie di Monia Marchionni: stelle, palle e cerchi colorati, elementi in volo o personaggi situati in posizione elevata: “I personaggi sospesi sono dei sognatori” commenta l’autrice “rappresentandoli, è un po’ come se raccontassi me stessa”. In Primo amore c’è anche qualche autoritratto. Tra i più suggestivi, quello che ha dato il via alla serie fotografica, scattato all’alba di una giornata autunnale, in cui l’autrice si rappresenta “come un pesce fuor d’acqua” di fronte al mercato ittico, cuore pulsante della piccola città.
Fotografie: © Monia Marchionni
12 luglio 2021