di Enrico Stefanelli
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Il 12 febbraio è stata inaugurata al Mandela Forum di Firenze la mostra Mediterraneum – Il diritto alla speranza, scatti dal mare, che raccoglie 14 delle fotografie scattate da Massimo Sestini durante le giornate trascorse a bordo della Fregata Bergamini come testimone degli interventi di soccorso della Marina ai rifugiati.
L’installazione permanente, con le immagini di grande formato e retro-illuminate, chiude l’anno di celebrazioni dedicate al centenario della nascita di Nelson Mandela. L’intento è quello di testimoniare il difficile percorso per affermare i diritti di tutti, sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti umani e richiamare anche l’impegno che i governi del mondo si sono presi nel 1979 firmando la Convenzione Internazionale sulla Ricerca e il Salvataggio Marittimo, che fra le altre cose recita: “Le parti garantiscono che l’assistenza sia fornita a qualsiasi persona in difficoltà in mare. Lo faranno indipendentemente dalla nazionalità o dallo stato di tale persona o dalle circostanze in cui tale persona è stata trovata”.
Abbiamo colto l’occasione per fare una interessante chiacchierata con Massimo Sestini.
A proposito della fotografia vincitrice del World Press Photo nel 2015. Ci vuoi raccontare la situazione nella quale l’hai scattata?
Ero autorizzato a stare sulla Fregata Bergamini per 5 giorni e, passati quei 5 giorni, sono andato dal Comandante e gli ho detto: “Io non me ne vado.” Allora hanno chiamato Roma e sono arrivate le autorizzazioni speciali che mi hanno permesso di restare 15 giorni a bordo. Il tredicesimo giorno si è calmato il mare e dopo 5 ore è arrivata la telefonata per il salvataggio del barcone la cui fotografia mi ha permesso di vincere il World Press Photo.
Le 14 fotografie in mostra sono state scattate in quei 15 giorni a bordo della Fregata Bergamini, vuoi approfondire qualche scatto?
Questa è la fotografia di un Siriano. È forse una delle mie preferite perché lo sguardo del padre e lo sguardo del figlio parlano da soli ad ognuno di noi, più di ogni parola. Lo sguardo del bambino ci segue. Gli occhi rossi insanguinati di quest’uomo, che ha passato una notte perché all’addiaccio sotto le coperte dorate per soffrire il meno possibile: uno sguardo così inquietante, così profondo, ci entra dentro. Questo è il cimitero dei barconi abbandonati a Lampedusa. Sempre in pianta ortogonale, ogni fotografia che ho realizzato dall’alto è stata fatta precisamente dall’alto verso il basso. Sempre. Questa accozzaglia ci ricorda i nostri cimiteri delle automobili. Ma qui si tratta di carrette del mare che hanno trasportato e in qualche caso perso per mare centinaia e centinaia di persone. Ci dà un’idea del numero enorme di persone che la Fregata Bergamini può aver trasportato, effettuando un salvataggio dietro l’altro. Migliaia di persone… Immagina il lavoro di chi stava a bordo: identificare, curare, dissetare tutte quelle persone salvate dal mare. Un’apocalisse.
Un aneddoto su tutti?
Ho incontrato pochi giorni fa uno dei ragazzi del barcone, a 5 anni di distanza. Non lo avevo conosciuto di persona, era una delle 500 persone che quel giorno stava centinaia di metri sotto di me. È lui che, invece, mi ha detto: “Mi ricorderò sempre del momento in cui ho visto il tuo elicottero e tu che penzolavi e ci fotografavi. Eri il segno di qualcosa che arrivava per salvarci la vita”.
Come si riesce a restare razionali di fronte a certe situazioni quando si devono scattare queste fotografie?
Si dovrebbe rimanere di ghiaccio; e si rimane di ghiaccio. Perché si impara che per fotografare si devono controllare determinati fattori. È qualcosa che assomiglia alla lucidità del soccorritore che per salvarti deve fare un massaggio cardiaco.
Devi restare lucido, ci sono persone intorno a te che stanno facendo tutto ciò che è possibile per salvare gli altri e tu ti occupi di documentare e raccontare quello che sta accadendo, nella maniera più obiettiva possibile.
Come ti ha cambiato questa esperienza?
Siamo diventati cinici: una guerra vale l’altra, un terremoto vale l’altro, ci si abitua a tutto. Ma su questa nave e sulle altre in cui mi sono imbarcato in questi due anni, ho cominciato a provare emozioni che prima non avevo provato; avevo davanti a me occhi che mi guardavano e mi comunicavano qualcosa. Ho imparato a essere multi-tasking, a essere sensibile pur riuscendo a fare quello che devo fare, documentare. Per trasportare l’emozione nelle immagini, così da entrare nella mente e nel cuore delle persone attraverso l’immagine, che è il mezzo di comunicazione più profondo che ci sia. Anche l’emozione che provo adesso con questa mostra è pazzesca. Comincio a capire che a 56 anni si vive anche di brividi ed emozioni.
Questa mostra permanente al Nelson Mandela Forum chiude l’anno di celebrazioni dedicate a Nelson Mandela. Per te Massimo, che significato ha?
Per il mio percorso di fotogiornalista e paparazzo (sono così fiero di essere nato come paparazzo perché mi ha insegnato delle cose che mi sono servite nel reportage e nella ritrattistica) era inconcepibile pensare di mettere una fotografia in mostra in un luogo pubblico, senza uno scopo di lucro. Di solito un fotografo fa una mostra per lanciare un suo libro, per vendere le sue fotografie. Questa Iniziativa è nata grazie a un’idea di Massimo Gramigni, che l’anno scorso mi ha detto: “Facciamo questa cosa, metto a budget un tuo fee, dimmi quanto”. Gli ho subito risposto: “Niente”, ci ho pensato un secondo. Dico la verità, l’emozione di pensare di fare qualcosa che potesse servire a sostenere, in qualche modo, la causa di migliaia di persone, di diversi paesi e diverse etnie, mi dava un po’ di adrenalina. Era qualcosa che non avevo mai fatto. E poi, sai, mi sento provvisorio e precario: si può morire da un momento all’altro, soprattutto nel nostro lavoro. E pensare che qualcuno, un domani, anche quando io sarò scomparso, guarderà una mia immagine e proverà un’emozione, e non perché è stata venduta a un giornale e quindi non per lucro, è tanta roba. Quindi ce l’ho messa tutta. Ho trovato una squadra di persone fantastiche che ha realizzato delle stampe così grandi. Quello che con Gramigni volevamo fare era lasciare un’emozione sociale e non soltanto interiore. Un’emozione che potesse far sentire ognuno di noi capace di cambiare quelle cose che non ci sembrano giuste.
Il tuo prossimo progetto?
Sto cercando di rintracciare le persone che erano su quel barcone. Per ora abbiamo trovato una 50ina di persone, NG Channel ci ha aiutato moltissimo. Stiamo realizzando un filmato di 44 minuti che andrà in onda in oltre 170 paesi del mondo e sarà presentato il prossimo 20 giugno in occasione della giornata mondiale dei rifugiati.Il mio obiettivo è raccontarne attraverso una decina di ritratti la storie di queste persone, raggiungendole dove stanno vivendo ed entrando nel loro quotidiano. Voglio che i ritratti siano presi dalla stessa prospettiva zenitale con la quale avevo fotografato il barcone, per avere un filo conduttore.
28 marzo 2019