di Chiara Ruberti
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In Bosnia ed Erzegovina viene condotta una guerra mondiale nascosta, poiché vi sono implicate direttamente o indirettamente tutte le forze mondiali e sulla Bosnia ed Erzegovina si spezzano tutte le essenziali contraddizioni di questo e del terzo millennio.
(Kofi Annan, Report of the Secretary-General, p. 503)
Un cecchino di Sarajevo si lascia intervistare in una stanza quasi buia.
Mi sembra incredibile: è una donna. Una donna che spara a un bambino di sei anni? Perché?
“Tra vent’anni ne avrebbe avuti ventisei”, è la risposta che l’interprete traduce.
Il freddo diventa più intenso, fa freddo dentro. L’intervista finisce lì, non c’è altra domanda possibile.
(Gino Strada, Pappagalli verdi. Cronache di un chirurgo di guerra, Feltrinelli, 1999)
Il Tribunale penale internazionale per l’ex Yugoslavia (ICTY) fu istituito all’Aja nel 1993 dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per indagare sui crimini di guerra che avvenivano nel conflitto balcanico: assedio, detenzione in campi di concentramento, uccisioni di massa, genocidio. Per la prima volta nella storia, un tribunale viene istituito nel mezzo di una guerra, con il compito di perseguire e giudicare i principali responsabili politici e militari dei crimini perpetrati.
Nel corso del 2017, ultimo anno di attività dell’ICTY, il fotografo Martino Lombezzi (Genova, 1977) e la giornalista Jorie Horsthuis (Amsterdam, 1981) hanno avuto la possibilità di accedere agli spazi interni del tribunale e agli archivi. Quello che ne è risultato è “Resolution 808”, un’approfondita indagine visuale dove le fotografie di Lombezzi si combinano con il lavoro giornalistico di Horsthuis.
A venticinque anni dalla fine della guerra di Bosnia ed Erzegovina questa indagine è un prezioso documento di qualcosa che sembra ormai lontanissimo nel tempo, ma che ha segnato indelebilmente la storia dei Balcani e di tutto il mondo occidentale.
Abbiamo chiesto a Martino Lombezzi di parlarci più approfonditamente di questo importante lavoro, che in Italia è stato esposto ad Officine Fotografiche (Roma) nell’ambito del Diplomacy Festival in una mostra a cura di Daria Scolamacchia e nella sede del Campus di Forlì di UNIBO, nell’ambito dello Human Rights Nights Films and Arts Festival.
Nel 2003 concludi i tuoi studi universitari con una laurea in Storia Contemporanea e una tesi sulla nascita dell’ICTY e il suo ruolo nelle guerre dei Balcani. Hai fatto sedimentare per tanti anni questa questione prima di decidere di affrontarla con un progetto fotografico. Come sono nate l’idea di “Resolution 808” e la collaborazione con Jorie Horsthuis?
Lavorare a questo progetto è stato per me come chiudere un cerchio. Dopo la laurea mi sono trovato infatti di fronte a un bivio: continuare gli studi, provando a perseguire una carriera accademica oppure lavorare con la fotografia, che già durante l’università stava diventando un mestiere e mi aveva permesso di guadagnare qualcosa. Ho scelto questa strada, ma mi è sempre rimasta la voglia di approfondire gli studi. Negli anni successivi ho viaggiato molte volte nei paesi della ex Jugoslavia, che sono rimasti a lungo al centro dei miei interessi anche come fotografo. In uno di questi viaggi ho conosciuto Jorie, a Orahovac, una piccola enclave serba in Kosovo, nel dicembre 2007, alla vigilia dell’indipendenza. Lei era lì da diverso tempo come giornalista e ricercatrice per studiare le piccole comunità serbe. Negli anni siamo sempre rimasti in contatto, condividendo il nostro interesse per i Balcani.
L’idea di tornare a lavorare sul Tribunale è nata tra la fine del 2016 e l’inizio 2017 da una considerazione: dopo molti anni di disinteresse, alla fine di quell’anno erano programmati due eventi che avrebbero riportato l’attenzione dei media all’Aja. Il primo era la sentenza del processo a Ratko Mladic, il generale serbo bosniaco considerato il responsabile del massacro di Srebrenica. Il secondo era la chiusura del tribunale stesso, dopo 25 anni di indagini e processi. Siamo quindi partiti con l’obiettivo di produrre un lavoro che fosse pronto per quella data, da poter distribuire sul mercato editoriale europeo.
Ci affascinava l’idea di provare a rappresentare l’istituzione dall’interno, di darne un’immagine diversa e indipendente da quella che il Tribunale stesso propone ai media, mostrandone il funzionamento e raccontando le esperienze di chi ci aveva a lungo lavorato. Di fatto si tratta di uffici: nulla di visivamente così speciale. Uffici dove però, per più di un ventennio, si erano analizzati, ricostruiti e discussi nel dettaglio i crimini più terribili commessi sul suolo europeo dopo la Seconda guerra mondiale. Aule dove erano passati i responsabili della distruzione di un mito, quello jugoslavo, che ancora esercitava un suo fascino. Mi interessava la sfida anche fotografica di provare a evocare questi eventi e i segni che avevano lasciato negli spazi e sulle persone.
Dopo lunghi mesi di attesa e molti passaggi burocratici, abbiamo ottenuto il primo accesso. Non si tratta di un luogo dove puoi avere piena libertà di movimento, e non sempre è stato facile negoziare e ottenere di poter lavorare in maniera indipendente, soprattutto per due freelance con poche credenziali e un progetto autofinanziato. Siamo poi riusciti a costruire una rete di contatti e a creare il necessario clima di fiducia, che ci hanno permesso di effettuare diverse visite successive, sempre più mirate. Siamo così riusciti ad avere un corpo di lavoro pronto per il novembre del 2017, che poi è stato pubblicato su diversi giornali e magazine europei. Il progetto è cresciuto, e grazie a pubblicazioni e grant abbiamo aggiunto altri capitoli: adesso stiamo lavorando nei Balcani sul tema della giustizia a livello locale.
Cosa ha significato aver avuto la possibilità di accedere dall’interno agli spazi dell’ICTY e ai suoi archivi, e cosa ha aggiunto a quanto già avevi indagato e conoscevi sulle guerre dei Balcani e la fine della Jugoslavia?
Io avevo visitato il tribunale già in passato, nel 2013, come spettatore del processo a Radovan Karadzic. Già allora era stato per me un momento emozionante, come assistere in diretta a un pezzo di storia. Avere però la possibilità di passare dall’altra parte, entrare nelle aule di solito interdette al pubblico, poter posizionare il cavalletto su quelle stesse moquette mi ha dato un brivido particolare. C’era anche la sensazione di essere passati nel “backstage” di quella che in fondo è anche una grande “rappresentazione” della giustizia.
Il tribunale è nato nei primi anni ’90, e dentro i suoi uffici si respira in qualche modo ancora quell’atmosfera, nel mobilio, nell’organizzazione degli spazi, quasi anche nello stile di alcuni impiegati. Moltissimi di loro, a vari livelli, sono originari dei Balcani: alcuni descrivono l’ICTY come una “Jugoslavia in miniatura”.
L’ICTY è stato più volte, negli anni, al centro dell’attenzione mediatica, ma quasi mai si è parlato di coloro che ne hanno reso possibile il lavoro: gli interpreti, gli avvocati, i giudici, che con Jorie avete incontrato e intervistato. Come ti sei approcciato alle storie che avevano da raccontare? E cosa di quelle storie ti arrivava dagli spazi che avevano abitato?
Approfondire le storie e il ruolo degli interpreti è stato uno dei motori iniziali di questo lavoro, e sicuramente i loro racconti sono tra i più interessanti che abbiamo ascoltato. Intanto perché a differenza dei giudici e dei membri dell’ufficio del procuratore, praticamente tutti loro provengono dalla ex Jugoslavia, ed hanno quindi avuto una qualche esperienza del conflitto. Trovarsi in aula ed essere la “voce” egualmente di vittime e carnefici, o dei leader politici e militari che hanno portato i loro Paesi alla rovina, ha sicuramente richiesto una professionalità eccezionale e li ha costretti a sopportare un livello molto elevato di stress e trauma, che molti di loro ancora oggi pagano.
Dal punto di vista visivo ho cercato un modo efficace di ritrarre queste persone, che potesse invitare l’osservatore a scavare nella loro esperienza interiore. È stato interessante anche poter riprodurre alcune delle note che gli interpreti prendono durante i processi, appunti scritti di getto durante il dibattimento sul significato di singole ma magari fondamentali parole, sulle quali talvolta si è giocato il valore di una prova o di una testimonianza.
Anche gli avvocati difensori e i giudici sono figure molto interessanti e ricche di aneddoti: entrambe molto libere e indipendenti dal meccanismo burocratico del tribunale, sono stati fondamentali per approfondire la complessità e le sfaccettature politiche di questa istituzione. Tra gli altri, abbiamo collaborato anche con Dragan Ivetic, uno degli avvocati difensori di Mladic, che ci ha permesso di seguirlo nei giorni precedenti la sentenza.
Nel 2018 avete avuto accesso all’archivio delle prove dell’OTP. Questi oggetti sono andati a costituire un ulteriore, fondamentale capitolo del vostro lavoro. A che cosa vi siete trovati di fronte?
Per noi era fondamentale poter avere accesso a questo archivio, che peraltro non era mai stato visitato né fotografato prima: rappresenta sia un nuovo capitolo del nostro lavoro giornalistico che un importante tassello visivo del progetto. A differenza dell’archivio del Tribunale, che è interamente digitalizzato, accessibile al pubblico e contiene soprattutto documenti, nella cella dell’OTP (ufficio del procuratore) si trovano anche migliaia di oggetti che sono stati raccolti durante anni di indagini sul campo. La provenienza e la storia di ognuno di questi reperti è quanto mai varia: orologi rinvenuti sui cadaveri esumati dalle fosse comuni, la pistola sequestrata a Nasser Oric al momento dell’arresto, il diario di guerra di Ratko Mladic recuperato dietro una falsa parete nel suo appartamento di Belgrado, bossoli di un cecchino sulle alture di Sarajevo, il libro Waging modern war del generale americano Wesley Clark responsabile dei bombardamenti in Kosovo, un vecchio poster elettorale di Slobodan Milosevic. Ho passato tre giorni in compagnia del capo archivista dell’OTP, insieme al quale ho analizzato e fotografato su un set un’ampia selezione di oggetti. Essi rappresentano il contatto visivo più diretto tra gli anonimi uffici dell’Aja e gli avvenimenti sui campi di battaglia. In un luogo che si suppone freddo e distaccato dagli eventi, e che dista migliaia di chilometri dai Balcani, entrare in contatto con questi reperti ha creato un forte cortocircuito: molti di questi oggetti, soprattutto quelli provenienti dalle esumazioni, hanno conservato il loro odore, un odore di morte che credo mi rimarrà per sempre nelle narici.
Ho dovuto fare un po’ di ricerche per capire il significato del titolo del progetto. Vuoi spiegarcelo?
Con la risoluzione 808 del 22 febbraio 1993 le Nazioni Unite decidono la creazione di un tribunale internazionale per indagare e processare i crimini che stavano avvenendo in Ex Jugoslavia. È la prima volta dopo Norimberga che la comunità internazionale prende una decisione del genere. La Resolution 808 è un atto burocratico tra tanti, a cui è associato un semplice numero progressivo, un atto scritto col tipico linguaggio formale che caratterizza i provvedimenti ONU. Da questa decisione deriva il primo e più grande esperimento di giustizia internazionale mai compiuto. Abbiamo scelto questo titolo per ricordare quella decisione ma anche perché ci sembrava potesse rispecchiare un contrasto che attraversa tutto il progetto: quello tra il distacco, la formalità e la pretesa freddezza analitica della giustizia e il calore dirompente della violenza traumatica del conflitto, che ha coinvolto chiunque abbia lavorato in questa istituzione.
Fotografie: © Martino Lombezzi
30 settembre 2020