di Chiara Ruberti
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Nelle ‘mie’ foto i soggetti sono quelli di tutti i giorni, appartengono al nostro campo visivo abituale: sono immagini insomma di cui siamo abituati a fruire passivamente; isolate dal contesto abituale della realtà circostante, riproposte fotograficamente in un discorso diverso, queste immagini si rivelano cariche di un significato nuovo. […] Per questo mi piacciono molto i viaggi sull’atlante, per questo mi piacciono ancora di più i viaggi domenicali minimi, nel raggio di tre chilometri da casa mia.
Luigi Ghirri, Paesaggi di cartone, Galleria dell’immagine di “Il Diaframma Fotografia italiana”, Milano, 1974
Ghirri non poteva certo immaginare, nel 1974, che i viaggi sull’atlante – o sul meno poetico schermo di un computer – e i viaggi nel raggio di qualche centinaio di metri intorno alle nostre case sarebbero diventati, nel lungo e rarefatto tempo della pandemia, un confortante esercizio di immaginazione, nell’impossibilità di uscire, muoversi e viaggiare come eravamo abituati a fare.
Atlante è un progetto seminale della fotografia italiana: Luigi Ghirri, nel corso del 1973, torna più volte a lavorare sulle 41 fotografie che lo compongono, assemblando le stesse immagini in sequenze differenti, in una delle sue prime risposte all’esigenza di trovare una nuova chiave di lettura del concetto di paesaggio e di spingere i codici della sua rappresentazione al di fuori dei confini tracciati sino ad allora dalla fotografia.
Anche quando si muove nel paesaggio reale, il viaggio, per Luigi Ghirri e i fotografi con lui coinvolti in quella grande “avventura del pensiero e dello sguardo” che è diventata punto di riferimento teorico e visuale per una intera generazione di fotografi, resta – come si legge nel risvolto di copertina di Viaggio in Italia [L. Ghirri, G. Leone, E. Velati (a cura di), Viaggio in Italia, Il Quadrante, Alessandria, 1984] – “ricerca e possibilità di attivare una conoscenza che non è una fredda categoria della scienza” ma strumento per “ricomporre l’immagine di un luogo, e antropologico e geografico”.
In Viaggio in Italia il paesaggio italiano si presenta nei suoi elementi primari: Ghirri seleziona le ricerche e la struttura del progetto secondo un andamento tematico che nulla ha a che fare con un ordine geografico o un diario di viaggio (Giuliano Sergio). Autori e luoghi sono sistematicamente mescolati, come se le varie parti d’Italia parlassero la stessa lingua con parole diverse e gli autori anche.
Il lascito più prezioso di Viaggio in Italia, di Luigi Ghirri e di tutti quei fotografi e intellettuali che, con lui e intorno a lui, hanno dato vita a quella che oggi conosciamo come “scuola italiana di paesaggio”, è stato un nuovo e, allora – negli anni Ottanta – quanto mai necessario vocabolario per raccontare il paesaggio italiano.
Siamo nel 1984 e l’idea di paesaggio di Luigi Ghirri si va precisando proprio nel momento in cui l’idea romantica e idealistica di paesaggio sta morendo. Qualche anno dopo, nel 1991, in un famoso articolo uscito su “Casabella” Franco Purini afferma, infatti, che “il paesaggio [italiano] non esiste”. Al suo posto c’è un collage disomogeneo, fatto di stratificazioni di materiali, di immagini e di significati, che per essere interpretato ha bisogno di strumenti e nomi del tutto nuovi (Pippo Ciorra).
La fotografia di Ghirri e degli altri autori che partecipano a Viaggio in Italia contribuisce in qualche modo all’elaborazione di questo nuovo strumentario.
Le immagini si interrogano sulla frattura che si è creata tra l’uomo contemporaneo e il mondo che egli stesso ha costruito. Tutte queste fotografie costituiscono un documento, ma nello stesso tempo si spogliano della condizione di documento per l’approccio con il quale sono realizzate, lontano da quello documentario, per le riflessioni dalle quali scaturiscono e per il loro status di “semplici osservazioni” dei luoghi. In questo paradosso risiede uno tra i maggiori contributi di Luigi Ghirri all’esercizio della consapevolezza dello spazio che viviamo.
La fotografia dunque come dispositivo capace di attivare un pensiero, attraverso il quale rileggere il paesaggio e il territorio, facendo ordine nel disordine di cui parla Purini.
D’altronde Italo Calvino, uno degli intellettuali coinvolti in quel grande progetto corale e multidisciplinare che è Esplorazioni sulla via Emilia, nella prefazione a Esplorazioni sulla via Emilia. Scritture nel paesaggio – volume che nel 1986, esce contestualmente al catalogo della mostra [Esplorazioni sulla via Emilia. Vedute nel paesaggio, Feltrinelli, Milano, 1986] – afferma che siamo tutti impegnati a “osservare i luoghi, non per definirli, descriverli, classificarli, ma per aiutare a scoprirli, per guardarli insieme in tanti, con tanti occhi, come per rinforzare la fiducia nella possibilità di trasformarli”.
Esplorazioni sulla via Emilia inaugura un nuovo processo di indagine fotografica, legato al percorso e all’esplorazione, che permette di scoprire o riscoprire aspetti del reale attraverso lo sguardo del fotografo. Un approccio che fa pensare a quel titolo che Guido Guidi scelse per un incontro da lui tenuto al CRAF di Spilimbergo, “La fotografia si fa con i piedi”, che esplicitamente fa eco alla famosa affermazione del grande urbanista Bernardo Secchi: “l’urbanistica si fa con i piedi”.
Restando in Italia e avvicinandoci gradualmente al nostro tempo, viene allora naturale soffermarci su due progetti che sicuramente devono molto alla lezione di Ghirri e che disegnano attraverso le fotografie mappe inedite dei luoghi che percorrono.
Attraverso i villaggi (1986) è un progetto – e anche un libro – di Andrea Abati (Prato, 1952) che fa del corso dell’Arno l’oggetto delle proprie fotografie. Il percorso dalla sorgente alla foce del fiume è, di nuovo, avventura del pensiero e dello sguardo e, anche in questo caso, traccia una cartografia inedita, non ufficiale, dei territori che seguono l’Arno nel suo percorso dal Casentino al mare. Abati appartiene alla generazione successiva a quella di Ghirri, ma si inserisce a pieno titolo in quel gruppo di fotografi che ha contribuito alla definizione del “nuovo paesaggio” e nelle sue immagini cerca, prima di tutto, un motivo di ripensamento, di riflessione sul territorio. Le sue fotografie raccontano di aree di scarto e di avanzi della modernità come di spazi intatti e resti di antiche grandezze: il fiume attraversa indifferentemente montagna, campagna, passa attraverso i centri abitati, grandi o piccoli che siano. Indifferentemente. Trasporta via le scorie, inonda, travolge.
Quello che per Ghirri e compagni era stata la strada in questo lavoro di Abati è il fiume, che nello stesso modo racconta non solo i luoghi ma anche la loro storia, in un percorso che è spazio, tempo, stratificazione, archivio, montaggio.
Abati ha percorso, in due anni, le sponde dell’Arno in diverse tappe, spinto da una fascinazione personale per il fiume e dalla forte motivazione di mostrare la necessità di “migliorare” la qualità delle acque e dell’ambiente fluviale. In quegli anni molte città, compresa la stessa Firenze, non disponevano, per esempio, neanche di un depuratore per le acque reflue. Quello che fanno le immagini di Abati, registrando senza pregiudizi la storia delle sedimentazioni del territorio, è obbligarci a guardarci intorno e rintracciare nelle intermittenze di questo nuovo paesaggio il segno delle trasformazioni ambientali e territoriali che abbiamo provocato.
Around the walk è un progetto collettivo, un laboratorio errante, nato da un’idea di Ilaria di Biagio (Firenze, 1983) e Pietro Vertamy (Cuneo, 1979) con l’intento di creare itinerari nuovi da percorrere esclusivamente a piedi, che generano inedite e complesse narrazioni multidisciplinari.
Nei loro progetti la fotografia cerca prospettive altre che permettano di rileggere il territorio, e per farlo – per allargare il proprio sguardo si avvale anche del prezioso contributo di altre discipline, compagne di viaggio (la topografia, le scienze sociali, la musica, altre arti visive).
Lucania Walk in Progress (2015) ha mappato un percorso ad anello di 200 km in Basilicata, da Matera a Matera. L’indagine visuale è affidata a Ilaria Di Biagio, che, con il medio formato, ha registrato sedimentazioni, incompiuti, residui del paesaggio. Spostarsi a piedi le ha permesso di scoprire quelle stratificazioni, soprattutto infrastrutturali, che percorrendo il territorio in macchina o seguendo le strade non sono visibili.
Uno dei tratti più interessanti del viaggio è quello tra Ferrandina e Matera. I lavori di realizzazione della tratta ferroviaria Ferrandina-Matera La Martella avviati nel 1986, non sono mai stati completati e la città di Matera oggi resta ancora isolata dal resto della rete ferroviaria nazionale, fatta eccezione per la linea a scartamento ridotto che la collega a Bari. La sede ferroviaria, una lingua di cemento lunga 29 km, è stata interamente costruita, così come le opere civili e i fabbricati della stazione. Mancano del tutto la palificazione e l’armamento. Nelle parole di Vertamy, lo stupore dello sguardo: “È bizzarro arrivare fin qui, dopo un viaggio di 200 km a piedi in mezzo alla natura, camminando su un interminabile striscia d’asfalto abbandonata che sarebbe dovuta diventare una ferrovia. La linea ferroviaria Ferrandina-Matera è stata infatti costruita e mai inaugurata. Non ci hanno messo i binari. Rimangono due lingue di asfalto grigio lunghe chilometri, come piste di atterraggio per extraterrestri. Attraversiamo anche diversi ponti di ferro prima di arrivare fin qui e sederci. Per carità, per noi viandanti, una bellezza. Surreale, fra piante che sbucano dalle fessure e volpi che scappano sulla carreggiata a quindici metri di altezza. Una bottarella di conti, però, fa tremare i polsi. Ecco l’incompiuto italiano. L’ennesimo. Ed ecco al fondo, come se non bastasse, la stazione di Matera. Nuova, vuota, in abbandono”.
Nella più recente delle esplorazioni di Around the Walk, di nuovo, un fiume. Oltre Tevere è un cammino, un percorso di 405 chilometri attraverso quattro regioni e cinquantasei comuni italiani, tracciato e georeferenziato, che segue il grande fiume che attraversa Roma dalla fonte alla foce. Oltre Tevere è anche e soprattutto un’indagine visuale di un territorio ricco, fragile, prezioso, nata da un’inedita collaborazione fra Around The Walk e le associazioni romane Phototales ed Eternal Tiber. Nella prima pagina del suo diario di viaggio, Pietro Vertamy – che ha guidato e accompagnato cinque fotografi professionisti lungo l’intero cammino – scrive: “Un fiume può essere tante cose. La didattica da sussidiario, in genere, restringe di molto le opzioni narrative. Invalicabile barriera naturale, ma in primis fonte di vita, risorse e commerci per genti assennate di ogni dove. Per fondare città. […] come sempre si fa cruciale il punto di osservazione. Il punto preciso nello spazio, l’altezza, l’ampiezza di ripresa con la quale si decide di osservare una porzione di mondo. E se si voglia mettere davanti agli occhi o meno, qualche tipo di filtro, che sia semantico o di concetto. Cosa inquadrare e come, per raccontare cosa.”
E dunque, cinquant’anni dopo Atlante e quasi quaranta da Viaggio in Italia ed Esplorazioni sulla via Emilia, la fotografia è ancora in cammino, oggi come allora.
Se la fotografia è un viaggio non lo è nei termini classici suggeriti da questa parola, è piuttosto un itinerario tracciato ma con molti scarti e ritorni, casualità e improvvisazione, una linea a zig-zag.
Luigi Ghirri, da Un canto della terra. Intervista di Emanuela Teatini, in P. Costantini, G. Chiaramonte (a cura di), Luigi Ghirri. Niente di antico sotto il sole, SEI, Torino, 1997
*Questo articolo è una revisione dell’intervento L’avventura del pensiero e dello sguardo: inedite cartografie del paesaggio contemporaneo realizzato dall’autrice durante le 3 Giornate di Architettura (Pistoia, 9-11 giugno 2016) e pubblicato in Paolo Caggiano, Fabiola Gorgeri (a cura di), Architettura e Percorso, 3 giornate di Architettura, V edizione, atti del convegno, Edifir, Firenze, 2017. Un ringraziamento speciale va a Fabiola, anima bella e lieve, per quella preziosa e feconda occasione di riflessione e confronto.
29 marzo 2021