Joana Choumali – I fili della speranza

Senza titolo, dalla serie "Ça va aller".
di Daniela Mericio
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La pace, un sogno di serenità che l’umanità ha perseguito nei secoli ma che il mondo appare ben lontano dall’avere raggiunto poiché – e ne siamo tutti almeno in parte consapevoli – ogni area del globo è costretta a sperimentare quotidianamente conflitti e violenze, con diversi livelli di intensità e drammaticità. Di pace e giustizia (e istituzioni solide) tratta l’obiettivo numero 16 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, sottoscritta nel 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU. Dei dodici traguardi che l’obiettivo si pone, il primo recita, semplicemente: “Ridurre ovunque e in maniera significativa tutte le forme di violenza e il tasso di mortalità ad esse correlato.”

La fotografia ha svolto e continua a svolgere un ruolo fondamentale e insostituibile nel rendere noto quanto accade in luoghi devastati da guerre e terrorismo, documentando i conflitti e le loro conseguenze umanitarie con reportage capaci di scuotere la coscienza collettiva. Le strade del mezzo fotografico e della creatività, tuttavia, possono essere infinite: ci sono lavori che hanno lasciato il segno raccontando di una realtà dilaniata dall’orrore senza descriverla in modo oggettivo, riuscendo a comunicare l’atmosfera di dolore che accompagna una tragedia senza mostrarne i lati più evidenti; rivelandone i risvolti meno visibili, nascosti tra le pieghe della riflessione e dell’introspezione e conducendo chi guarda in un territorio in cui la fotografia allarga i propri confini e si congiunge all’arte.

Joana Choumali, fotografa e artista visuale ivoriana, le ferite del suo Paese ha provato non solo a raccontarle, ma anche metaforicamente a ricucirle attraverso una minuziosa e attenta attività di ricamo – con fili di cotone, lana, lurex – sulle immagini da lei scattate e poi stampate su tela. Ça va aller è il titolo del lavoro che, nel novembre 2019, le ha consentito di vincere, prima artista africana, il prestigioso Prix Pictet, il premio istituito per richiamare l’attenzione su tematiche riguardanti la sostenibilità. “Hope” (Speranza) era il tema dell’ottava edizione, tema che Joana Choumali ha magistralmente interpretato e che percorre, come un filo conduttore, le sue opere più recenti.

Era il 13 marzo 2016 quando un attentato terroristico, rivendicato da Al-Quaeda, spezzò il ritmo calmo e lento di Grand-Bassam, cittadina turistica situata sulla costa a una cinquantina di km da Abidjan. Le vittime furono 19 e la risonanza fu forte in un Paese come la Costa d’Avorio, ancora memore del trauma della guerra civile conclusasi nel 2011. Tre settimane dopo la fotografa lasciava la sua abitazione di Abidjan e per raggiungere Grand Bassam, dove ha indagato la sofferenza e lo smarrimento che aleggiavano nel luogo, scattando con il suo smartphone, più discreto rispetto alla macchina fotografica. E aggiungendo in un secondo tempo il ricamo per confortare, prima di tutto, se stessa.

Ho voluto raggiungerla “virtualmente” per rivolgerle qualche domanda.

Senza titolo, dalla serie “Ça va aller”.

Come è nata l’idea di unire fotografia e ricamo? È una pratica molto tranquilla e lenta, hai affermato di considerarla “una forma di meditazione”, una sorta di scrittura automatica, legata alla psicologia e alle emozioni; mentre la fotografia a volte è, in un certo senso, una pratica “veloce”. Puoi spiegare questo approccio tanto originale? 

I miei ultimi lavori sono tutti progetti “mixed media”, ovvero un mix di fotografia digitale e ricamo. Il risultato sono pezzi unici stampati su tessuto, dall’atmosfera poetica, onirica. Una pratica che risponde a un mio bisogno, quello di toccare e intervenire fisicamente sulle mie fotografie. Ho cominciato a utilizzarla nella mia serie Adorn, aggiungendo ricami e decorazioni su alcuni lavori ricamati, che poi fotografavo di nuovo per comporre un collage digitale. Poi ho lavorato al progetto Translation un lavoro sull’emigrazione che è stato esposto al padiglione della Costa d’Avorio alla 57a Biennale di Venezia.

In seguito, sono passata alla mia serie Ça va aller. Ho deciso di scattare con il mio iPhone, utilizzandolo come se stessi scansionando la città, poi le immagini sono state stampate su tela di cotone 24×24 cm e infine ho ricamato direttamente sul tessuto; le dimensioni ridotte mi hanno permesso di lavorare da casa, o da qualsiasi altro posto…  Mi piace lo stato meditativo in cui ci si può trovare mentre si cuce. È una sensazione molto particolare. Rasserenante. Uso sempre lo stesso punto per ogni tela, un punto semplice, come quelli che si usano per riparare un buco in un tessuto. Proprio come avviene durante un processo di guarigione, l’atto di ricamare sui miei quadri è parte integrante del mio quotidiano; è un modo per concentrarsi e meditare, ma anche per trasmettere speranza attraverso l’atto del cucire.

La frase del titolo, “Ça va aller”, racchiude un’intera filosofia. È curioso, molto simile a quella utilizzata dagli italiani nei giorni della pandemia: “Andrà tutto bene”…ma è anche vero che in ogni situazione ci sono sfumature diverse. Perché l’hai scelta? Quali erano le sensazioni nei giorni dopo l’attacco?

Sì, è uno stato d’animo molto simile. Come “Andrà tutto bene”, “Ça va aller” si traduce in inglese “It’s going to be fine” ed è molto comune in Costa d’Avorio: è una frase usata dalla gente in modo informale, per rassicurarsi a vicenda, anche dopo un evento profondamente traumatico. Ho iniziato il progetto meno di un mese dopo l’attacco terroristico avvenuto a Grand-Bassam nel marzo 2016, quando tre uomini armati hanno aperto il fuoco in uno stabilimento balneare, a soltanto un’ora di distanza dalla mia casa di Abidjan. Tre settimane dopo l’attentato, l’atmosfera della cittadina era cambiata, ovunque regnava la tristezza. Come se fosse pervasa da una sorta di “saudade”, di malinconia. Molte immagini mostrano persone sole, mentre camminano per la strada o se ne stanno sedute, perse nei propri pensieri. E mostrano spazi vuoti… I fili di colore brillante, ricamati sulla tela, rappresentano i sentimenti che non riesco ad esprimere a parole: sono una testimonianza e una presa di coscienza del trauma subito dalla popolazione di Grand-Bassam. Il solo osservare questa città ferita mi ha fatto capire quanto prima fosse stata piena di vita e di gioia. Ho individuato e colto un barlume di speranza in un momento molto difficile, ho cercato di ricordare come era stato questo luogo e mi sono resa conto del contrasto, di quanto l’attacco terroristico lo avesse cambiato. Ho cercato di visualizzare, di proiettarmi nel “dopo”, accettando il fatto che Grand Bassam avrebbe potuto non tornare mai più come prima… È stato un atto di speranza e di resilienza che per me si è tradotto in un processo creativo. Mi sono concentrata sull’osservazione delle strade che avevo fotografato e poi ho riempito gli spazi vuoti di ricami colorati, proprio come fosse una scrittura automatica.

Les demoiselles d’honneur (Le damigelle d’onore), dalla serie “Alba’hian”, 2019.

“Ça va aller” è un lavoro legato ad un periodo triste e a un evento specifico. Attualmente stai lavorando ad un’altra splendida serie, “Alba’hian”, nella quale usi ancora il ricamo, insieme ad altre tecniche come il collage e il quilting. Appare più positiva rispetto alla precedente, e ancora più colma di speranza, se possibile. Cosa è cambiato per te, nella tecnica, nei soggetti, nelle tue sensazioni?

La luce del mattino è simbolicamente associata alla speranza, ai nuovi inizi, alla rinascita. Nel mio progetto in corso, Alba’hian (“la prima luce del giorno” in lingua Agni) trasferisco la mia esperienza dell’alba. Camminare la mattina presto, tra le 5 e le 7, è per me un’esperienza forte, che mi permette di elaborare i miei sogni, i miei pensieri, ogni genere di emozioni. Penso che spesso un artista parli di sé attraverso le sue opere. Esploro la mia identità e il mio ambiente. Quello che voglio è poter iniziare una conversazione, una riflessione che potrebbe essere riassunta da questa frase: “Chi siamo? Dove stiamo andando? Da dove veniamo?” Per me la fotografia è un ottimo strumento, un canale per entrare in contatto con cose che spesso sono date per scontate, e quindi invito le persone a pensare insieme a me.

In realtà, i miei lavori attuali sono il risultato di una ricerca personale, intima e ho intenzione di proseguire su questa strada, indagando il legame tra il mondo fisico e la realtà spirituale. Il mio lavoro riguarda l’accettazione di ciò che siamo e l’esplorazione del subconscio. È legato alla mia percezione dell’ambiente e alla tacita connessione che sento tra le persone che fotografo e me. E anche allo spazio, al paesaggio, all’energia ambientale di un luogo. Il dialogo non verbale che può avvenire con l’altro e con un ambiente. Uso la mia immaginazione. Mi concentro sul punto d’incontro tra le mie emozioni e quelle delle persone presenti, che possono influire sul contesto. Quando scatto, mi sembra di lasciare nell’immagine anche una traccia di me stessa. L’arte mi permette di avviare un dialogo di speranza con un luogo o una persona. L’atto di fotografare, seguito poi dall’atto di ricamare, è per me un’estensione logica, una risposta a qualsiasi situazione: il solo fatto di esserne testimone può farmi diventare un attore al suo interno. Alba’hian non è un progetto legato a un evento specifico, ma assorbe la mia personale esperienza dell’epoca in cui vivo.

We all feel it at the same time (Lo sentiamo tutti nello stesso momento), dalla serie “Alba’hian”, 2019.

Hai alternato progetti di “mixed media”, come “Ça va aller”, a lavori di pura fotografia, soprattutto straordinarie serie di ritratti come “Hââbré” o “Resilients”, quest’ultimo esposto nell’edizione 2015 di Photolux Festival. Attualmente sembri più orientata a seguire il percorso dei “mixed media”, per quale motivo? Hai in cantiere nuovi progetti?

Sì, direi che sono passata gradualmente e con naturalezza dalla fotografia digitale documentaria ai “mixed media” seguendo il mio istinto e abbracciando questo processo. Ora sono concentrata sui “mixed media”: dal 2016 lavoro solo su questa tecnica. Sto facendo ricerche per un nuovo progetto che unisce fotografia, ricamo e collage. Sono soprattutto interessata ad allargare I confini della fotografia utilizzando immagini digitali sulle quali intervengo manualmente.

Ritieni quindi, nella tua carriera, di esserti progressivamente distaccata dalla fotografia documentaria, per abbracciare un approccio più concettuale? Definiresti il tuo stile un modo altamente simbolico di ricreare la realtà?

Sì, è così, ma allo stesso tempo mi piace approfondire alcune questioni sociali utilizzando una diversa prospettiva. Pormi delle domande che riguardano il contesto in cui vivo e osservare la società fa ancora parte del mio percorso. Al contempo, amo anche comunicare attraverso i simboli e con l’approccio concettuale che seguo ora nel mio lavoro. Per me, sono due strade diverse ma l’obiettivo è lo stesso.

Ogni opera di questi progetti è un pezzo unico, il che li avvicina più all’arte che alla fotografia, anche perché presentano un aspetto “materiale”…

Sì, ogni pezzo è unico e io sono particolarmente attratta dall’idea di dedicare molto tempo a una fotografia che è stata scattata in un attimo.

Concetti come resilienza e speranza sono fortemente presenti nel tuo lavoro. Si può dire che tu abbia una visione positiva della realtà?

È molto più di una “visione positiva della realtà”. Per me, se non c’è speranza, non può esserci la forza per superare le difficoltà. La speranza dà il coraggio di combattere e di provare a migliorare le situazioni. Se manca la speranza, come si può essere resilienti? Come si può sopravvivere e lottare?

Know the depths of water (Conosci la profondità dell’acqua), dalla serie “Alba’hian”, 2019.

Il lavoro di Joana Choumali è profondamente legato all’Africa e, nelle sue serie fotografiche ha sovente trattato temi come l’identità, la femminilità, il rapporto con il corpo, il modo in cui le tradizioni interagiscono con la modernità. Si vedano, ad esempio, i già citati progetti Hââbré Resilients. Anche in Alba’hian, che prende vita durante le sue camminate mattutine, l’artista ivoriana è “testimone dell’energia del continente che fa andare avanti la sua gente e ne modella la vita”.

In questo suo percorso più recente, tuttavia, non solo oltrepassa i confini della fotografia, ma anche quelli della propria terra, riuscendo, attraverso la sua arte paziente e traboccante di colori, a parlare un linguaggio davvero universale, capace di lenire, anche se solo nel breve istante della visione, le ferite di un mondo che chiede di essere soccorso. E consentendoci di provare a immaginare un futuro diverso.

 

Tutte le fotografie: © Joana Choumali

 

9  luglio 2020

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