di Luca Sorbo
_
– Intervista a Raffaela Mariniello –
Il percorso artistico di Raffaela Mariniello è lungo e complesso e si sviluppa su quattro decenni. È tra le più significative fotografe italiane con importanti esperienze a livello europeo. La sua ricerca è caratterizzata da una sperimentazione continua con l’uso di differenti mezzi espressivi, da un raffinato bianco e nero al colore, dal video al lungometraggio. Questa ricerca tecnica è sempre, però, funzionale alle profonde necessità espressive che la motivano. La sua è un’indagine sui limiti, sulle marginalità, sui luoghi dove è accaduto qualcosa o dove è in corso un mutamento.
Come è nato il tuo interesse per la fotografia?
Bisogna risalire agli anni Ottanta del Novecento. Tutto è cominciato con il reportage grazie a una figura di riferimento, uno zio giornalista molto noto all’epoca che adesso non c’è più: Giuseppe Marrazzo. Erano gli anni del post terremoto a Napoli, e grazie a Giò Marrazzo cominciai a lavorare per un’agenzia di fotogiornalismo, ma rendendomi conto quasi subito che non avevo la qualità per dedicarmi a una professione del genere. Inesperienza ed età a parte, l’approccio dinamico e irruento del reporter non erano per me, perciò decisi subito di provare un metodo diverso, una fotografia più statica e contemplativa, quella da cavalletto e con la macchina di medio formato.
Ebbi l’occasione di una commessa importante: fotografare i lavori del Centro Direzionale di Napoli, un’area che sorgeva sul lato est della città e su cui si riponevano molte aspettative dal punto di vista dello sviluppo urbano, naturalmente poi deluse. Cominciai così con la fotografia aerea e di architettura. Ero decisamente un’autodidatta e avevo un certo intuito, quindi fotografare il Centro Direzionale in costruzione fu per me un’esperienza straordinaria che portai a termine con un certo successo. Per realizzare i palazzi e i grattacieli di quell’area ci vollero anni e io intanto imparavo la tecnica e sperimentavo.
La scelta di lavorare subito e non frequentare l’università fu una decisione comune ad altre amiche della mia età, io poi in particolare volevo fare un lavoro creativo che mi permettesse anche di essere indipendente: quelli erano anni particolari, a Napoli non c’era niente con cui confrontarsi a parte forse l’Accademia di Belle Arti dove però all’epoca verso la fotografia non c’era l’attenzione che c’è oggi.
Ha avuto un’influenza sulla tua formazione anche la frequentazione dell’Istituto di Cultura Francese Grenoble?
Il Grenoble all’epoca era diretto da Jean Digne, un intellettuale francese importante che amava molto la fotografia. Faceva arrivare dalla Francia molti fotografi che ho avuto la possibilità di conoscere e seguirne il lavoro. All’Istituto allestirono una camera oscura dove feci esperienza di stampa in bianco e nero, e grazie a queste frequentazioni e alla mia intensa pratica sul campo, il mio essere fotografa prendeva sempre più corpo. E poi imparavo anche dai miei stessi errori, come quando decisi di utilizzare il 10×12 cm ma non riuscivo a realizzare nulla perché mettevo le lastre al contrario nel banco ottico!
Come è nato il tuo primo libro Bagnoli, una fabbrica?
L’Italsider di Bagnoli nel 1991 stava chiudendo, e io mi convinsi subito della necessità di sottolineare visivamente questo evento. Le dinamiche sociali conseguenti alla decisione di chiudere la fabbrica mi coinvolgevano, ma ero ancor più affascinata dal paesaggio urbano creato intorno all’impianto: un corto circuito tra natura ed artificio, tra bellezze naturali e intervento dell’uomo. Uno scenario incredibile che identificavo come un inferno, un vulcano, una bocca di fuoco artificiale. Utilizzai il bianco e nero perché mi consentiva un maggiore controllo dell’immagine finale, il colore era un processo più industriale in cui non potevo intervenire: la scelta fu molto indovinata. Impiegai settimane, mesi, in camera oscura per tirar fuori le 50 immagini del libro (Bagnoli una fabbrica, Electa Napoli, 1991).
La camera oscura è una grande magia a cui sono molto legata. Oggi che lavoro prevalentemente in digitale mi manca molto, anche se anni e anni di lavoro al buio mi avevano stancato.
Hai utilizzato spesso il flash in questo lavoro?
Il flash mi consente di “congelare” le situazioni, necessità ricorrente nei miei lavori. A Bagnoli, durante una lunga posa, facevo passare gli operai davanti a un muro fermando il loro movimento con il flash. Il risultato finale era strepitoso e del tutto sperimentale, un fondersi dell’uomo con il muro. Quell’immagine diventò il simbolo del legame tra lo stabilimento e la sua forza lavoro. Utilizzo anche molto la luce artificiale che è già presente in un ambiente, mi piace quando si unisce a quella naturale.
Quali sono stati i tuoi riferimenti culturali e visivi?
Ho letto molto, sentivo l’esigenza di formarmi da un punto di vista culturale. L’autore di riferimento in quegli anni non è un paesaggista, ma la definirei una fotografa antropologa: Diane Arbus. La sua attenzione alla marginalità e a ciò che la società non vuole vedere, probabilmente mi ha guidata nelle mie prime ricerche. Fondamentale è stata anche la lettura dei testi di Ansel Adams, attraverso cui ho conosciuto il sistema zonale, un metodo inventato dal celebre fotografo americano per controllare la qualità della stampa e della ripresa attraverso l’uso dell’esposimetro e delle diluizioni degli acidi di sviluppo e stampa. Anche il digitale deve molto al sistema zonale di Adams: Photoshop è un software sviluppato con i criteri che regolano questa vecchia tecnica.
Come è nato il libro Moltitudini?
Eravamo a metà degli anni Novanta, e con il lavoro che avevo intitolato “Moltitudini” feci la prima mostra personale allo Studio Trisorio di Napoli, che è ancora oggi la mia galleria di riferimento. Nella mia pratica di sperimentazione, “Moltitudini” era una installazione, praticamente una foto/scultura, realizzata con diversi pannelli montati a differenti distanze dalla parete. Le foto rappresentavano due soggetti diversi, delle alici e dei chiodi, che in bianco e nero sembravano molto simili: c’era un gioco percettivo molto intrigante perché le due materie così diverse tra loro si fondevano in un unico sguardo. Quella è stata una riflessione proprio sulla fotografia, sul fatto che quel che vediamo rappresentato non rispecchia affatto la realtà. La fotografia non è la realtà.
Come è nato il libro Napoli veduta immaginaria?
Ho pubblicato quel libro (Napoli veduta immaginaria, Motta Editore, Milano, 2001) a distanza di dieci anni da quello su Bagnoli. Avevo cominciato ad esplorare le periferie della città per curiosità e per una sorta di continuità con Bagnoli – anche la fabbrica era in periferia – quindi decisi di approfondire il tema. Le periferie nei primi anni 2000 non erano ancora un argomento di successo nei trattati di urbanisti e antropologi, la città da quel punto di vista era del tutto nuova e mai vista prima. Nel mio lavoro ci sono delle costanti, come l’interesse per la marginalità e la ricerca di una luce di confine tra giorno e notte, caratteristiche che accompagneranno per molti anni il mio immaginario fotografico.
Che ruolo ha la tecnica nella tua ricerca fotografica?
Per quanto io non sia una virtuosa, la tecnica nella mia fotografia ha un ruolo di estrema importanza e, sempre attraverso la pratica, cerco di imparare tutto ciò che possa essere utile per raggiungere i miei scopi. Oggi per il digitale utilizzo una ALPA, che mi consente di avere file ad altissima risoluzione di eccellente qualità. La uso come prima utilizzavo la Linhof folding 4×5 pollici. Non sono interessata alla tecnica fine a sé stessa, ma solo come indispensabile strumento per dare forza al mio sentire ed al mio guardare. Ho conosciuto fotografi di moda e di pubblicità – come l’amico Fabrizio Lombardi, che purtroppo oggi non c’è più – che avevano capacità tecniche di gran lunga superiore alla mia.
Souvenir D’Italie è una tappa molto importante nel tuo percorso, passi dal bianco e nero al colore e concentri la tua attenzione sui centri storici delle città. Come nasce questa ricerca visiva che molti hanno percepito come una forte discontinuità, quasi un tradimento?
Sentivo il bisogno di vivere un cambiamento. E così passai dalle periferie ai centri delle città, osservate però da un punto di vista laterale, direi “periferico”. Le chiamo infatti “periferie dell’anima”. Nel libro (Souvenirs d’Italie, Skira, Milano, 2012) affronto in anticipo un tema diventato poi problematico negli anni: il turismo di massa. È un fenomeno che riguarda il patrimonio italiano ma che si fonde con il consumismo, riguarda l’identità storica delle nostre città ma si scontra con il trash della modernità, con l’imperativo del viaggio mordi e fuggi, con la più becera superficialità. E in questo tocca una sensibilità marginale, periferica. Dal 2006 al 2012 mi sono dedicata a questo lavoro spostandomi da Sud a Nord e facendo un ritratto dell’Italia che non poteva essere in bianco e nero: il Kitsch ha bisogno del colore.
È in questa occasione che si è concretizzato anche il mio passaggio dall’analogico al digitale: con uno scanner di altissima qualità trascorro molto tempo guardando un monitor, immaginando la realizzazione di light box, altra tecnica che ho utilizzato a lungo. Dunque, dalla camera oscura al light box, che pure in qualche modo sembra una proiezione dell’ingranditore.
Che ruolo ha il video nel tuo percorso?
In questo momento della mia vita l’immagine in movimento sta diventando prevalente. Ho realizzato un video sull’incendio di Città della Scienza nel 2014, che è stato in mostra allo Studio Trisorio e al Museo Madre di Napoli dove è entrato a far parte della collezione permanente. Oggi, a distanza di quasi dieci anni, ho realizzato un vero e proprio film sul fiume Volturno. Intitolato “Zio Riz” (hd colore, suono, 62 minuti, una produzione di Teatri Uniti e Casa del Contemporaneo) è stato presentato sempre al Museo Madre il 5 ottobre 2022 insieme a due fotografie stampate in grande formato; anche questo lavoro è entrato a far parte della collezione del museo. Il film è un documentario sul fiume che percorro dalla sorgente alla foce seguendone tutto l’itinerario. Ho sempre percepito il fiume come qualcosa di molto distante rispetto alla preponderanza del mare che ogni giorno si apre allo sguardo di noi napoletani. Ma sentivo il desiderio di esplorare l’entroterra della Campania, di ritrovare le nostre radici contadine e affrontare temi ambientali a me cari in un modo diverso, seguendo un paesaggio rurale piuttosto che urbano. E il Volturno, raccontato attraverso la sua natura rigogliosa che man mano precipita nel degrado, è stato l’occasione giusta per gettare uno sguardo diverso sul nostro territorio.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Vorrei sicuramente continuare con il video: sto pensando di realizzare una trilogia filmica che allarghi la visione all’Italia dei nostri giorni.
Poi voglio portare avanti un progetto in cui la fotografia si accompagna alla tridimensionalità della scultura: è una nuova sfida a cui sto già lavorando.