di Luca Sorbo
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– Intervista a Lorenzo Castore venerdì 17 maggio 2024 alla Spot Home Gallery –
Self-portrait, Montana, 1994
“Turning Point” titolo dell’esposizione in corso fino al 30 settembre 2024 alla Galleria Spot Home Gallery di Napoli con fotografie di Michael Ackerman, Martin Bogren, Lorenzo Castore, Richard Park e Ander Petersen. Luca Sorbo ha intervistato Lorenzo Castore.
Lorenzo Castore, classe 1973, è tra i più interessanti autori italiani. Profondamente interessato alla Storia, cerca frammenti di realtà che siano in grado di dialogare con le vicende umane nel loro complesso. Indaga il quotidiano, cercando verità nascoste, leggibili, però, sui visi delle persone che incontra e sulla superficie del reale con cui si confronta. Ama sperimentare le possibilità tecniche del linguaggio fotografico, senza costringersi in uno stile, lasciando che sia la forza delle sue immagini a coinvolgere lo spettatore a cui non dà mai coordinate troppo semplici da seguire.
Come è nato il tuo interesse per la fotografia?
Da bambino ero ossessionato dal pensiero di cosa avrei fatto nella vita. Sentivo una voce interiore che mi spingeva a cercare qualcosa di veramente mio, un destino a mia misura. Ero molto appassionato di musica, ma non avevo un vero talento in questo campo. Un giorno, a 20 anni, vidi una mostra di Koudelka a Firenze, Exils, che mi consenti di scoprire certe possibilità espressive della fotografia fino a quel giorno inesplorate. Per me fu una vera rivelazione. Compresi che questa poteva essere la strada da seguire. Koudelka, poi, era nato lo stesso anno a pochi giorni di distanza da mio padre con cui a quel tempo avevo un rapporto distante e questo mi sembrò un segno del destino. Ero interessato ad una fotografia che si confrontava con il reale, ma che avesse dei livelli di comprensione complessi. Ero consapevole di aver bisogno di una crescita interiore personale in ogni direzione, oltre a dover acquisire la tecnica fotografica di base. Non volevo imitare Koudelka, volevo trovare un mio stile che avesse però la forza e l’intensità di quelle immagini. Trovai un fotografo che mi insegnò le nozioni basilari della ripresa e della stampa e poi mi impegnai molto nella pratica quotidiana. Mi ero iscritto a legge e nel tempo libero andavo a fotografare alla Stazione Termini e poi al campo rom Casilino 700. Queste furono esperienze molto belle, che mi coinvolse intensamente, che durò molto tempo e dove sperimentando cominciai a scoprire le possibilità del racconto fotografico. Durante l’infanzia e la prima adolescenza ho cambiato spesso città e casa con mia madre e forse questo senso di sradicamento e non appartenenza ha sviluppato la mia naturale tendenza al viaggio e alla scoperta del mondo. A 23 anni con due dei miei più cari amici andai in India e durante questo viaggio capii che avrei voluto provare a essere un fotografo.
Quale è stata la tua prima ricerca visiva consapevole ed il tuo primo libro?
Il mio primo libro pubblicato è stato Nero, però la mia prima ricerca consapevole pensata per un libro è stata Paradiso, realizzata a L’Avana e Città del Messico. Nero è un lavoro sulle miniere del Sulcis, dove ero stato invitato dalla Società Umanitaria a seguito di un articolo di Loris Campetti su Il Manifesto su una mia mostra (una delle prime) di fotografie scattate nella zona mineraria della Slesia, in Polonia, presentato all’Istituto di Cultura Polacca a Roma. Paradiso è stato un lavoro diverso. Avevo il desiderio di lavorare a colori, però il colore doveva avere una forza espressiva e non solo documentativa. Fino ad allora non apprezzavo le immagini a colori, ma ero interessato a sperimentare delle nuove possibilità. Mi dissero che a L’Avana c’erano dei lampioni per strada che davano una luce gialla e dei neon con strane dominanti negli interni… e così andai.
Cosa cerchi in un ritratto?
In un ritratto cerco sempre un qualcosa che mi coinvolga. Cerco di creare una tensione tra me ed il soggetto. Cerco di non lavorare in modo razionale, mi affido all’istinto, mi pongo in una condizione di insicurezza. L’insicurezza è, a mio parere, un grande motore di creatività. Uso per questa ragione attrezzature analogiche che esaltano la sorpresa e il mistero.
Le tue fotografie sembrano più porre delle domande che dare delle risposte. Cosa vuoi ottenere con le tue immagini?
Cerco di stimolare una tensione tra due opposti: questo determina un’energia vibrante e spero che venga emotivamente percepita dallo spettatore. C’è sempre una sospensione, il senso di qualcosa che è accaduto e di qualcosa che accadrà. È necessario meravigliarsi di fronte alla realtà e questa meraviglia cerco di trasmetterla con quello che faccio.
Hai viaggiato molto, come ti ha influenzato?
Come dicevo prima, da bambino ho cambiato spesso casa. I miei genitori si sono separati che avevo 3 anni e con mia madre ho vissuto vari spostamenti. Quindi direi che nella mia vita è sempre la figura femminile a decidere dove fare base, questo è capitato anche in seguito con i miei amori.
Come è nato il lavoro Ewa & Piotr?
Un luogo dove ho vissuto a lungo è stato la Polonia, prima in Slesia e poi a Cracovia. Qui incontravo spesso per strada una signora che mi affascinava molto Ewa. Grazie ad un’amica comune, Ludmilla, ci siamo conosciuti e poi mi ha invitato a casa sua dove ho conosciuto il fratello Piotr. Abbiamo cominciato a frequentarci, a conoscerci, a volerci bene. Lì dopo qualche tempo ho trovato delle fotografie molto speciali di loro bambini scattate dal padre. Ho portato avanti questo lavoro per anni chiedendomi quali fossero le ragioni profonde per cui avessi deciso di realizzare questa ricerca visiva e qui di seguito potete leggere un estratto di quello che ho scritto nel libro a loro dedicato:
“Per il non-senso, per condividere un’esperienza umana, per non
giudicare, per la bellezza inaspettata, per il piacere di
identificarsi in tutto, per rendersi conto ancora una volta
che niente si fa da soli, per quello che non sappiamo e di cui
non si può dire.
La famiglia di Ewa e Piotr era una famiglia benestante, poi
hanno perso tutto. Tante sono le cause che hanno portato a
questo ma non voglio dire troppo di loro, non voglio
raccontare la loro vera storia con le mie parole o attraverso
la mia interpretazione razionale.
Ci sono le foto della loro infanzia, le mie del nostro tempo
insieme, e un film (co-diretto con Adam Cohen) che non
chiarisce niente, che non informa dei fatti, in cui Ewa e Piotr parlano e dicono quello che vogliono dire e rispondono come vogliono rispondere. Per reinventare, perchè la verità non è letterale ma assoluta e dappertutto. La storia di un mondo in due stanze. Anche no. Una storia. Ewa e Piotr sanno ridere e far ridere, hanno cultura, eleganza e sensibilità. Non sono patetici. Sono quello che sono. Hanno
avuto quello che hanno avuto. La vita è una, e a volte è strana. Piotr dice di no.”
Quale è stata la tua esperienza come fotografo di guerra?
Avevo l’esigenza di guadagnare dei soldi per vivere la passione per la fotografia ed avevo anche il desiderio di cambiare il mondo così pensai che il reportage di guerra poteva essere una strada da seguire. C’era la tragica guerra nel Kossovo che mi aveva profondamente colpito, una guerra tra vicini di casa in un territorio così vicino all’Italia. Un amico andava con una Onlus a Tirana e chiesi se potevo aggregarmi. In cambio cominciai a realizzare foto per le loro attività con i profughi e poi entrai da indipendente nella zona dove si combatteva. Sul territorio incontrai molti professionisti che non sempre mi entusiasmarono con il loro comportamento. Di ritorno Gianni Giansanti vide casualmente le mie foto e ne rimase entusiasta; mi aiutò a proporle a famosi giornali come il Corriere della Sera e Stern. I giornali apprezzarono le immagini, ma decisero per motivi politici di non pubblicarle. Tutta questa esperienza, per vari motivi, mi fece comprendere che il fotogiornalismo non era la mia strada. Allora decisi di andare in Polonia, a Gliwice, che era un piccolo centro in cui Hitler, all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, provocò un finto attacco ad una radio stazione per avere il pretesto per invadere la Polonia. Ho sempre avuto una grande passione per la storia, ho sempre cercato di trovare storie private che interagissero con la grande Storia e questa cittadina mi sembrava un buon luogo dove partire per la mia ricerca.
Quali sono le scelte tecniche che utilizzi per raggiungere i tuoi scopi?
Io non penso mai quando scatto se l’immagine verrà mossa o sfocata, cerco di pensare il meno possibile, mi concentro sul soggetto e sull’energia, la sua e la mia. Non credo di aver mai pensato di dover fare qualcosa per dover assomigliare ad un mio ipotetico stile. Mi sembra che il pubblico spesso apprezzi più facilmente immagini di autori di cui conosce lo stile. Sapere di vedere quel fotografo o quell’altro dà certezze e rassicura, crea idoli e punti di riferimento ma a me questa modalità non interessa affatto e mi annoia mortalmente. Oggi, nonostante la mia avversione per il calcolo carrieristico, mi pare che la ricerca cominciata da circa 30 anni stia diventando più intellegibile a tutti. Cerco di evitare tutte le cose che mi facciano sentire una caricatura. Non sono quello del mosso o dello sfuocato né quello del colore o del bianco e nero né quello della Holga o della Leica né quello della Polonia o di chissà dove: ci sono tante cose insieme che ho fatto e che faccio, una alla volta, con tutta la cura e la unicità che ogni cosa che provo a fare merita per sé stessa.
Come nasce un libro e come costruisci la sequenza delle immagini?
Affinché ci sia un libro è necessario che vi sia un lavoro che necessita di una conclusione. Ad esempio per Paradiso, dopo due lunghi viaggi, ho avuto la netta sensazione che il lavoro fosse chiuso. Dopo Paradiso per un lungo periodo ho anche smesso di fotografare a colori, poiché avevo acquisito una consapevolezza tecnica dell’uso del colore notturno che non volevo più ripetere passivamente. Questo forse mi ha un po’ frenato oppure danneggiato perché le foto ed il libro hanno avuto successo ed io ero stato associato a quello stile, in cui però non mi riconoscevo pienamente, ma che mi dava dei vantaggi di riconoscibilità. Non mi sentivo un colorista ed avevo voglia di sperimentare altre possibilità. Ewa & Piotr ho avuto più difficoltà a chiuderlo, ma alcuni eventi come l’esproprio della loro casa e la morte di Ewa ha determinato la naturale fine del lavoro. Ogni volta ci sono delle circostanze diverse che portano a decidere di chiudere un lavoro. Delle sequenze delle immagini mi occupo io chiedendo qua e là delle opinioni a persone di cui mi fido quando mi sembra necessario, mentre per il progetto editoriale collaboro con il book designer che mi sembra più indicato. Tra gli altri, ho avuto la fortuna di lavorare con Eloi Gimeno con cui ho progettato i primi due volumi del libro di una vita che sto pubblicando con L’Artiere e il libro su Ewa & Piotr.
Nel tuo percorso creativo c’è anche il cinema, come scegli quale linguaggio espressivo utilizzare?
Dipende essenzialmente dal progetto. Molte volte avverto la necessità di utilizzare il suono e questo mi induce ad utilizzare il linguaggio cinematografico. Amo lavorare per sequenze, anche quando utilizzo la fotografia e sento spesso l’esigenza di utilizzare le immagini in movimento o un editing che a questo richiami. In alcuni casi l’istante determina una sospensione di tempo che è necessaria per quel progetto, in altri casi l’evento ti impone l’uso di una sequenza. La fotografia è più ambigua. Poi nel cinema si lavora in gruppo e nella fotografia no. Il problema di base comunque è sempre lo stesso, si deve avere qualcosa da dire e trovare il modo che ci assomiglia di più per dirlo.
La musica che ruolo ha nella tua ricerca?
La musica per me è fondamentale. Oltre all’uso del suono, vivo le possibilità di un approccio musicale alle immagini attraverso l’editing. Credo che oggi più che mai, oltre alla singola immagine sia importante la costruzione della sequenza delle immagini. Siamo pieni di belle immagini e oggi, nel 2024, la vera sfida per un fotografo è la costruzione di un progetto visivo dove le immagini abbiano un ritmo efficace e sorprendente.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Vorrei lavorare al terzo volume della mia autobiografia con l’Artiere, ma servono almeno altri due anni. Vorrei concludere il mio lavoro sull’India che sto realizzando con Michael Ackerman. Faremo un ultimo viaggio, il quarto, prima di realizzare una mostra ed un libro insieme. Ho anche un progetto su Napoli, vorrei lavorare sul Vesuvio. Ho una grande attrazione per i vulcani. Ma è tutto ancora troppo acerbo per poterne parlare…
Turning Point
18.05 – 30.09.2024
Spot Home Gallery
Via Toledo, 66 – Napoli