di Luca Sorbo
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La cultura fotografica italiana deve molto al Centro Studi e Archivio della Comunicazione di Parma, che è stata una delle prime istituzioni pubbliche a occuparsi in modo consapevole e con competenza di fotografia. È strutturato in cinque sezioni – Arte, Fotografia, Media, Progetto, Spettacolo – e conserva circa dodici milioni di pezzi, di cui nove milioni di fotografie tra positivi e negativi. La sua ideazione fu molto innovativa e in buona parte lo è tuttora, è un punto di riferimento fondamentale ed è per questo che comincio questo ciclo di articoli sugli archivi fotografici italiani raccontando la sua storia e il suo presente. La sua attuale sede, l’Abbazia cistercense di Valserena, nota anche come Abbazia di Paradigna, è uno scrigno di tesori e di saperi. Ci guiderà in questo percorso la dott.ssa Claudia Cavatorta, che si occupa di conservazione e conosce ogni aspetto di questa prestigiosa istituzione che è parte dell’Università di Parma.
Tutto comincia nei primi anni Sessanta del Novecento, quando Carlo Arturo Quintavalle, uno dei massimi esperti italiani di storia dell’arte medievale, viene invitato da alcune tra le più prestigiose università americane come visiting professor. Durante questo viaggio Quintavalle visita vari archivi, tra cui la Library of Congress e il Museum of Modern Art di New York, che era stato tra i primi a dare dignità alle impronte di luce. Si accorge del ruolo che la cultura americana affida alla fotografia, anche a quella di semplice reportage e documentazione. Comprende l’importanza di acquisire interi archivi e non solo le immagini più famose, diventa consapevole che la particolarità delle impronte di luce è quella di essere parte di un processo produttivo e di fruizione che non può essere ridotto alla realizzazione di qualche opera pregiata, ma che ha nella sua complessità un pregio a cui non si deve rinunciare. Bisogna ricordare che in quegli anni la fotografia in Italia era pressoché ignorata dal mondo accademico, salvo qualche lodevole eccezione.
Quintavalle conosce e diviene amico del responsabile del dipartimento di fotografia del MOMA di New York, John Szarkowski, che era succeduto a Edward Steichen, primo direttore in assoluto del dipartimento. Da questa amicizia nasceranno alcune delle mostre più interessanti dei primi anni Settanta come quella su Lee Friedlander e la New Photography USA. Acquisisce per l’Università di Parma circa 3000 foto della Farm Security Administration. Da ricordare sono anche la prima antologica di Ugo Mulas nel 1973, nel 1977 di Nino Migliori, nel 1979 di Luigi Ghirri, nel 1980 di Mario Giacomelli. Sono eventi espositivi di notevole rilevanza per l’Italia, dove la cultura fotografica, tra molte incertezze, cercava una sua dimensione autonoma. Oggi allo CSAC sono conservati oltre trecento fondi per un totale di circa nove milioni di immagini.
Ritornato a Parma, ricco di queste nuove esperienze, nel 1968 lo studioso riesce a fondare il Centro Studi e Archivio della Comunicazione all’interno del Palazzo della Pilotta. Qui, al piano terra, viene attrezzata la prima sala in Italia per la conservazione dei differenti supporti fotografici. La scelta della parola archivio è importante, poiché in qualche modo si contrappone al termine museo, dove gli oggetti sono organizzati in modo gerarchico, mentre nell’archivio hanno un ruolo paritetico.
Anche le mostre attuali sono sempre ideate sottolineando le interrelazioni tra i vari oggetti e non solo esponendo i pezzi più pregiati. La missione dell’istituzione è quella di acquisire tutti i materiali legati alla comunicazione e quindi anche bozzetti di moda, design, progetti di architetti, tutti oggetti che fino a quel momento non avevano alcuna attenzione e, salvo rari casi, andavano dispersi se non distrutti. I primi archivi fotografici che acquisì furono quelli dello studio bolognese Achille Villani e del fotografo milanese Bruno Stefani. L’idea fin dall’inizio era quella di creare una raccolta pubblica strettamente connessa alla didattica ed alla ricerca.
Il metodo che Quintavalle utilizza per questi documenti è lo stesso impiegato per l’analisi dei documenti del Medioevo e, cioè, analizzare l’oggetto a 360 gradi, in tutta la sua complessità, collocandolo all’interno di un processo comunicativo al fine di ricostruire un contesto culturale di fruizione e di produzione. L’oggetto trova una sua identità solo in questo contesto. Anche le numerose mostre sono sempre costruite tenendo presente questo principio fondativo.
Dal 2007 la sede dello CSAC è l’Abbazia di Valserena, che, dopo un attento recupero filologico della struttura medievale, si presenta come efficiente area multifunzionale che trova nella chiesa un affascinante spazio espositivo. È un centro frequentato principalmente da studenti universitari, ricercatori e studiosi che possono trovare preziosi documenti per le loro ricerche. Numerosi e preziosissimi sono gli archivi fotografici conservati, di cui ricordiamo, oltre a Villani e Stefani, solo l’Archivio dello Studio Vasari di Roma, quello dei maggiori studi fotografici di Parma (Vaghi, Tosi), nuclei molto consistenti (oltre 500 esemplari) di stampe di importanti fotografi quali Luigi Ghirri, Nino Migliori e Mario Giacomelli.
Claudia Cavatorta ci ricorda che lo CSAC è oggi una struttura polivalente, dotata anche di una sala convegni e di una foresteria che può ospitare trentacinque persone e che in passato è stato sede di Summer School, convegni e simposi di vario segno. Tra i tanti progetti in corso quello da poco avviato, che vede la collaborazione di diversi giovani studiosi formatisi all’Università di Parma, finalizzato all’incremento dell’accessibilità – diretta e virtuale – di archivi appartenenti alle varie Sezioni.
Per qualunque ulteriore informazione e per visionare le collezioni online e prenotare una visita si può consultare l’efficiente e completo sito web www.csacparma.it.
Fotografie: Courtesy CSAC Parma
23 agosto 2021