di Dario Orlandi
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Gianluca Panella ha vinto recentemente la prima edizione del Romano Cagnoni Photolux Award per il fotogiornalismo, dedicato alla memoria del grande fotoreporter italiano scomparso lo scorso anno.
Impegnato dal 2012 nella documentazione del conflitto israelo-palestinese (il suo lavoro sui black-out a Gaza ha ricevuto il terzo premio nella categoria General News del World Press Photo 2014), il fotografo è tornato nel suo ricco archivio per raccontare la condizione delle donne palestinesi coinvolte nel conflitto con Israele.
Bijanibiha, di cosa parla il tuo lavoro?
Bijanibiha in arabo significa “dalla sua parte”, dove con “sua” mi riferisco alla donna della striscia di Gaza. Da fotografo di sesso maschile ho cercato di raccontare le condizioni di vita delle donne gazawe, il loro legame con la resistenza palestinese, la loro posizione in una società araba e fortemente religiosa, le lotte per il riconoscimento dei propri diritti.
Come vivono le donne di Gaza?
Per le donne palestinesi la guerra è una condizione permanente: il conflitto non si limita alla fase militare, ma si protrae in una lunga serie di privazioni materiali quotidiane, nella sopportazione del dolore per la morte degli affetti più cari, nell’ostracismo di una società patriarcale. Combattono una battaglia silenziosa, ma per certi versi ancor più pesante di quella degli uomini, perché incessante a livello morale e materiale.
Sono donne che sopportano carichi sovraumani. Cosa le rende così forti?
A differenza di noi occidentali, che vediamo le conquiste come qualcosa di individuale che deve risolversi nell’arco della durata di una vita, queste donne pensano nei termini di un disegno più ampio: poiché nelle scritture si dice che un giorno la Palestina sarà liberata, anche se a loro toccano sofferenze e privazioni e anche se loro non vedranno la liberazione, proseguono ugualmente nel perseguimento del disegno più ampio.
Il tuo è un lavoro di riedizione, fotografie scattate nell’arco del tempo per altri progetti che poi hai riassemblato. Cosa significa per un fotografo ritornare sul proprio archivio a distanza di tempo?
Provenendo dal mondo delle news, sono abituato e pensare le immagini nella loro immediatezza. Da qualche mese invece ho cominciato a lavorare al progetto di un libro, Captivity, che parla della condizione di costrizione nella quale vivono gli abitanti della striscia di Gaza. È stata l’occasione per riguardare il mio archivio e da qui è nata anche l’idea di Bijanibiha.
La sensazione è stata quella di guardare le immagini di un altro fotografo! Per certi versi interessante, per altri frustrante, perché scopri che a distanza di sette anni sei davvero un’altra persona. Attraverso questa revisione ho capito il fotografo che non sono più, ho capito di non sapere bene che fotografo sono adesso e questa sta diventando un’occasione straordinaria per tornare a scattare e riscoprirmi.
Più che un lavoro di editing, allora, un percorso alla ricerca di sé…
Credo che in fotografia la cosa più difficile sia capire veramente chi sei, cosa vuoi dire, come lo devi dire, correndo anche il rischio di scoprire che non hai la risposta! Una storia va recepita, trasformata e raccontata; fotografare è essenzialmente un lavoro di autoconoscenza: quando fotografo male è perché in realtà non mi sto ascoltando.
A questo proposito immagino che aver conosciuto un grande maestro come Romano Cagnoni sia stato molto importante.
Ho conosciuto Romano nel 2002 durante una conferenza alla facoltà di Scienze Politiche di Firenze. Dopo qualche tempo, sono andato a trovarlo ed è stato illuminante: Cagnoni ha lavorato spesso a fianco di altri fotografi celebri come Don McCullin e da questa prossimità è facile vedere come individualità differenti interpretino in maniera diversa la stessa situazione. Ad esempio, mentre McCullin era un fotografo prevalentemente portato all’azione, quasi un “fotografo soldato”, Cagnoni era invece più appassionato alla condizione umana.
Cosa ti affascina in modo particolare della sua autorialità?
La poesia e l’umanità. Nelle foto di Cagnoni, anche in quelle di news, c’è sempre una componente di empatia, di umanità, di moralità. Romano è come con un grande narratore: ogni frase che scrive è densa di vissuto e di significati, puoi trovare sempre qualcosa da imparare, da ricordare.
Qual è dunque il rapporto con un maestro? Non si rischia che personalità di questo spessore possano influenzare al punto tale da limitare l’espressività individuale?
Tornando al discorso di prima, dai maestri non bisogna apprendere lo stile, ma la conoscenza che hanno di sé. Non sarebbe né possibile né sensato cercare di fotografare come loro; si tratta piuttosto di fotografare quanto loro, provare ad avere quella stessa intensità partendo da sé.
Gianluca Panella | BIJANIBIHA
in collaborazione con Fondazione Romano Cagnoni e AFIP International
Chiesa dei Servi
Piazza dei Servi, Lucca
PHOTOLUX FESTIVAL | 16 novembre – 8 dicembre 2019
lun – ven: 15:00 – 19:30
sab e dom: 10:00 – 19:30
Fotografie: © Gianluca Panella
12 novembre 2019