di Beatrice Bruni
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Fin dagli esordi, negli anni Sessanta, in un clima culturale di fermento delle neoavanguardie, Franco Vaccari sviluppa la sua ricerca artistica principalmente tramite l’utilizzo del mezzo fotografico, ma in una nuova modalità. Vaccari concepisce operazioni artistiche in cui la nozione tradizionale di opera d’arte si mostra del tutto superata e stravolta.
I suoi lavori spesso prevedono il coinvolgimento diretto dello spettatore nella realizzazione di interventi che l’artista ha soltanto il ruolo di innescare, senza produrre l’opera direttamente, ma provocandone la creazione. È dunque fondamentale per lui coinvolgere lo spettatore e indurne una reazione, in un meccanismo vitale di feedback. Si veda a proposito il lavoro Esposizione in tempo reale n. 4. Lascia sulle pareti una traccia fotografica del tuo passaggio, presentato alla 36° Biennale d’arte di Venezia del 1972, in cui le immagini escono da una cabina Photomatic. L’opera prende forma in tempo reale, si sviluppa in relazione al modo in cui il pubblico la recepisce, contribuendo a determinarne forma e significato. Si realizza così una messa in discussione del ruolo auratico dell’artista, del significato di autorialità in favore dell’automatismo, del meccanismo stesso di esposizione, e del ruolo dello spettatore che è invitato – e intrigato – a “lasciare una traccia fotografica del proprio passaggio”.
La macchina è in grado, dunque, di lavorare per conto proprio: è l’inconscio tecnologico, l’eludere i condizionamenti “attraverso tecniche che fossero capaci di mettere in cortocircuito la presenza ingombrante dell’Io” (Vaccari 1979).
La poetica di Vaccari è caratterizzata dall’interesse nei confronti del viaggio, che in molti suoi lavori diventa sostanza e struttura. La fotografia e il viaggio sono da sempre legati a doppio filo; Vaccari tende a scardinare il loro usuale rapporto per restituire un prodotto del tutto nuovo, anti turistico e anti spettacolare. L’opera è aperta – esce in quegli anni il testo fondamentale di Umberto Eco – a imprevisti e casualità, a mancanza di controllo da parte dell’autore, è azione, è “immagine-atto”, come la chiamerà Philippe Dubois all’inizio degli anni Ottanta, è viaggio, appunto.
Di nuovo del 1972 è il progetto dal titolo 700 Km di esposizione Modena-Graz in cui l’artista pone al centro della riflessione l’atto stesso del viaggiare. I 700 Km sono quelli che separano Modena, città natale del fotografo, da Graz in Austria, città in cui egli è invitato per una mostra. Essa si costituisce “automaticamente” nel percorso in automobile: una serie di fotografie di camion, e altri vari mezzi di trasporto di merci, ripresi da dietro, durante il tragitto. È un procedimento che vuole porre l’attenzione sul percorso, non sulla meta, sul viaggio nel suo dispiegarsi, nel suo svolgersi, assurto a scopo assoluto, tanto da diventare esso stesso esposizione. La monotonia della serie diviene compiutezza ed intrinseca bellezza, così come potevano esserlo le gasoline stations fotografate da Ed Ruscha sulla Route 66, come rileva in un rimando estetico e di senso Claudio Marra (2012).
Concettualmente analogo è il lavoro del 1974 Omaggio all’Ariosto in cui Vaccari di nuovo eleva il viaggio a mostra che si auto alimenta. Con Esposizione in tempo reale n. 8. Omaggio all’Ariosto egli ripercorre il cammino che, stando alle cronache, il poeta Ludovico Ariosto aveva eseguito in pantofole da Carpi a Ferrara. Le tappe sono luoghi da cui Vaccari invia una cartolina acquistata in loco e spedita assieme a una Polaroid, applicata su di essa, con tanto di timbro certificatore, dove si sarebbe svolta la mostra. Di nuovo in evidenza le tappe di un viaggio e non la destinazione, in un rovesciamento, una decostruzione delle forme di rappresentazione tradizionali.
Tutto ciò era già presente nel precedente Seconda Esposizione in tempo reale: Viaggio + Rito, 1971. Il viaggio, che stavolta compare anche nel titolo dell’opera, è quello dalla sua città alla sede dell’esposizione che è Bologna, Galleria 2000. Una documentazione nello spazio e nel tempo del lavoro dell’artista, delle sue azioni anche nel momento dell’installazione stessa della mostra che dunque ha inizio quando egli esce di casa, e nuovamente si autoalimenta.
Spiega egli stesso: “Sono andato alla stazione FF.SS. seguito da due fotografi che con macchine fotografiche Polaroid testimoniavamo istante per istante il mio viaggio. Mi hanno fotografato mentre prendevo il biglietto, compravo il giornale, mi facevo lucidare le scarpe, salivo sul treno, scendevo, prendevo il taxi. Arrivato alla Galleria 2000 ho attaccato le fotografie a una parete e il biglietto l’ho messo in un’apposita scatola appesa alla parete di fronte. I due fotografi hanno continuato a scattare e le nuove fotografie venivano aggiunte le une alle altre; la mostra, in questo modo, si autocostituiva, si autoalimentava. Chi era venuto per assistere veniva immediatamente incorporato, moltiplicato, registrato, bloccato in istanti irripetibili e questo distruggeva lo spazio della contemplazione per aprire quello dell’azione. A un certo momento ho ripreso il biglietto e me ne sono andato”.
Una stratificazione di sistemi espressivi diversi, in cui si assommano l’immagine casuale, che è la Polaroid in arrivo alla sede espositiva in tempo reale, l’immagine codificata, che è la cartolina, la letteratura e il segno del timbro, che rimanda al processo postale, al viaggio dell’oggetto stesso dell’esposizione, e del suo autore.
Il viaggio per Franco Vaccari è dunque una pratica metodologica, un rito, una via crucis, e giunge al suo vertice compiendosi in esposizione; il viaggiare è forma dell’esperire.
Fotografie: © Franco Vaccari
29 marzo 2021