di Azzurra Immediato
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Il fondamento di tutte le scienze estetiche è l’antropologia.
(Friedrich Schlegel)
Nella costruzione di un linguaggio estetico, nella ragionata composizione e commistione tra mito, simbologia e metafora, Gillo Dorfles, percorrendo un vero itinerario, si affidava anche al pensiero di Schlegel, incaricando l’estetica di una lettura a ritroso della vita. La riflessione, intesa così in ambio interdisciplinare, nasce spontanea quando si osserva la complessa ricerca di Francesco Faraci, antropologo, sociologo, scrittore e fotografo palermitano. Egli non ama definirsi “fotoreporter” e, probabilmente, neppure con gli altri termini appena citati, così come è disinteressato all’estetica in quanto tale nella sua fotografia.
Francesco Faraci è un osservatore attento, noto al grande pubblico per Jova Beach Party. Cronache da una nuova era, e come un antropologo si cala nelle realtà che sceglie di raccontare, approda ad una cosiddetta “ricerca sul campo”: spogliandosi di qualsivoglia pregiudizio, sceglie di mettersi “in ascolto” di ciò che “osserva” indagando la sfera umana di ciò che immortalerà. Faraci ammette che la sua vita si è formata attraverso gli incontri ed è questo quello che le sue fotografie portano in scena, un compendio del nostro tempo, dell’altro da noi che, vicino o lontano che sia, ha una storia degna d’esser raccontata, capace di intridere non già e non solo la fotografia, ma tutto ciò che essa contiene, un universo altero, straniante, spesso incomprensibile eppure in cui entrare per comprendere. Cosa? L’epitome dei sentimenti, una geografia costellata di anime che l’obiettivo ha catturato, senza scinderne le radici dalla poesia sincronica e diacronica celata tra i contrasti cromatici o le linee di fuga – metaforica – compositiva.
Ho ricevuto in dono l’ultimo libro di Francesco Faraci, Atlante Umano Siciliano nei primissimi giorni in cui la quarantena stava ampliandosi all’Italia, proprio nel momento in cui ero immersa in studi di antropologia e psicologia. Probabilmente, l’inatteso lirismo di questi incontri risiede nella stessa poesia che genera la trama di una visione e dell’attimo perfetto che spinge a scattare una foto – o forse, è solo la magia dettata da noi nati nell’83! Tuttavia, dopo aver letto d’un fiato i testi che accompagnano il volume, quelli di Grazia Dell’Oro, di Francesco Cito e dello stesso Faraci e dopo aver scoperto uno straziante Canto scritto dal fotografo di Trinacria, chiamarlo per approfondire questo lavoro, quell’ode, è stato naturale.
Francesco, Atlante Umano Siciliano è un racconto d’amore in fotografia, un amore tormentato ma viscerale, di quelli senza cui non si vive. Perché hai scelto di raccontare questa Sicilia? Perché poco nota, perché più vera, perché latrice di una dignità altrimenti inespressa?
Se l’amore non è tormento, non può essere amore. C’è sempre quella sottile inquietudine che lo accompagna, quelle domande che non avranno mai una risposta, malgrado tu continui a cercarle. Eppure senza l’amore, quello universale e che abbraccia le cose del mondo, non si vive. La Sicilia è la mia terra, quella in cui sono nato e cresciuto, quella in cui dopo tanto pensare ho scelto di rimanere, come per una forma di resistenza. La mia certo, ma anche quella di tanti altri. Da questo avamposto guardo il mondo, sempre da qui nascono le idee e i pensieri che avvolgono il mio fare.
Nel corso di questi viaggi senza meta sono stato accompagnato da un gruppo di gitani, il che per certi versi ha aperto uno spiraglio sul fantastico, sull’immaginario che si crea una volta superata la soglia della riproduzione neorealista. Come se nella rappresentazione di questa mia terra si fosse insinuata la sfera del sogno. Non ero io che sceglievo i luoghi, ma loro che sceglievano me. Si è trattato di atterrare in territori poco noti perché spinto dalla mia voglia di muovermi senza briglie, sforzandomi di essere libero da sovrastrutture e giudizi di sorta, aprendomi all’inaspettato, alla sorpresa di un incrocio di sguardi, alla dignità dei pescatori e dei contadini, alla saggezza ma anche all’asprezza degli anziani, alla grazia dei bambini e dei ragazzi, alla genuinità del volto di un passante. La Sicilia come isola non trovata. Così è nato l’Atlante, tra un sogno e un altro.
Atlante Umano Siciliano, come si legge dalle parole del tuo incipit editoriale, rimanda, nel suo costrutto antropologico e fotografico, ad un “luogo di frontiera”; cosa hai “visto” al di qua ed al di là di tale limite?
La Sicilia è un luogo di frontiera. La porta di accesso a un mondo tanto lontano e tanto vicino come l’Africa. Per alcuni è la porta d’ingresso, per molti la quasi certezza di essere salvi. Un Klondike agognato dai cercatori d’oro. Quando i migranti la scorgono all’orizzonte sanno che non è Morgana, ma il porto in cui potranno ricominciare una nuova vita dopo essere scappati dalle guerre e dalla miseria. Al di qua ho visto un luogo per alcuni aspetti fermo nel tempo, che crede nei santi e nel ciclo della semina e del raccolto, nell’alternarsi delle stagioni. Ho visto la voglia di resistere, qualche volta la rassegnazione di esistere. Ho conosciuto la morte e la vita, le ho fotografate e fatto tesoro della loro lezione. Ho avuto per un attimo chiaro cosa significhi avere delle radici. Ho riscoperto ricordi che credevo di non ricordare. La Sicilia è la linea dell’orizzonte oltre la quale si nascondono i limiti di cui cerchiamo sempre di alzare l’asta per portarci un po’ più in là, per spingerci verso l’evoluzione. L’altrove è sempre una sorpresa, una porta spalancata sul futuro e da qui riesco a vederla.
Il bianco e nero che hai scelto per tale narrazione visuale, anima i contrasti divenuti soggetti dei tuoi scatti. Tralasciando, per un attimo, le valenze estetiche, raccontaci: cosa ti ha guidato nella scelta dei tuoi protagonisti?
Grazie per aver lasciato fuori le valenze estetiche che lasciano un po’ il tempo che trovano. Così come è successo per i luoghi che ho visitato, anche gli incontri sono stati dettati da un “riconoscimento” di me nell’altro. In ogni fotografia c’è una parte di me e questo succede perché ancora prima del click fisico, un istante prima, il click che smuove corde lontane avviene all’interno, in una zona non meglio identificata dell’anima che fa nascere un archetipo, un’immagine già vista in un tempo che non so definire ma che sono sicuro d’aver vissuto. E lì arrivano i contrasti, che sono i miei, ma anche quelli della vita di tutti.
I soggetti del tuo compendio, del tuo Atlante, reggono un mondo spesso lontano dal racconto della “Sicilia”. Sei riuscito a mostrare loro il risultato di questo tuo cammino intrapreso come ospite delle loro esistenze? Quale la loro reazione?
Purtroppo, non è stato possibile mostrare a tutti il risultato finale. Non sono ancora riuscito a ritornare in certi luoghi, quelli più lontani soprattutto. L’ho mostrato però a chi ho potuto, ai miei amici gitani ad esempio, e le reazioni erano sempre diverse, ma tutte positive. Spero in futuro di poterlo via via mostrare a tutti coloro che mi hanno regalato la possibilità di una fotografia e sono sicuro che verrà quel tempo.
All’interno dell’Atlante, è racchiuso, su carta rossa, il tuo “Canto della Terra”, una toccante ode che dedichi alla Sicilia. Verso dopo verso, senza mai essere didascalico, dipani la storia e le storie di una terra mitica. Esso è nato insieme con il progetto fotografico oppure giunge da un tuo archivio di scritti?
Canto della Terra è nato per strada, fra uno spostamento e l’altro. Porto sempre con me un diario e lì, fra i pensieri, appuntavo dei versi, cosa tra l’altro che non facevo da tantissimo tempo, che poi hanno formato questa mia dedica. Quelle parole seguono il mio movimento, si adattano alla corrente di emozioni e odori e sensazioni che ho provato negli ultimi tre anni. Sono stati scritti sul sedile di una macchina, sopra un bus, sul traghetto che attraversa lo stretto, dentro una moschea, sulla spiaggia.
Il tuo eclettismo di visione ha certamente radici nella tua formazione socio-antropologica, e stupisce il pubblico attraverso voli fotografici pindarici. Progetti per il futuro?
In questi giorni assurdi sono stato coinvolto in un progetto di cui non posso ancora svelare nulla, che mi ha portato, con le dovute autorizzazioni e prendendo tutte le precauzioni possibili, di nuovo per le strade della mia città. Ho da subito avuto la sensazione che se non avessi fatto qualcosa per documentarle, perché è questo anche che fanno i fotografi, checché se ne dica, quello che ho fatto prima e quello che farò dopo non avrebbe avuto senso. Ho appena finito di lavorare ad un romanzo – che uscirà non si sa bene quando vista l’emergenza che ha giustamente bloccato tutto – e adesso sto raccogliendo le idee, scrivendo un diario di quello che vedo e sento in questi giorni. Ho diversi progetti in mente per il futuro, ma adesso il presente incombe con tutta la sua prepotenza e tocca affrontarlo e farci i conti.
Giorni fa Francesco Faraci, in una delle dirette Instagram in cui era coinvolto, ha affermato che“stiamo facendo parte della Storia” senza quasi rendercene conto – ma prossimamente, scoprirete che gli è stato affidato un compito davvero epocale – e, questo, senza dubbio alcuno, resterà un momento indelebile nelle nostre menti. Non eravamo di certo pronti a nulla di quanto accaduto. Ecco, pertanto, che mentre scrivo questo Focus on, mi tornano alla mente immagini dell’AtlanteUmano Siciliano e di quella lotta continua e silente, talvolta, da cui esse sono pervase. Esse sono la prospettiva di un prima e di un dopo; vite, volti e storie che sono come frontiera di questo nostro vivere e non solo perché racconti delle magmatiche viscere della Sicilia, luogo mitico e di confine, ma perché storie di un limite altro, non solo fisico, non solo geografico, ma di una forza unica, inesprimibile altrimenti, eppure nuda dinanzi a se stessa. Francesco Faraci, negli ultimi versi del suo Canto, scrive:
Forse saremo più stanchi, i capelli sai imbiancano, il volto si asciuga,
ma la domanda inconsueta del vivere è in attesa di ubriacarsi insieme a noi,
di meraviglia.
Parleremo delle occasioni perdute. Diremo parole non dette,
dei treni che ci passeranno davanti.
Da domani sapremo che nulla è perduto, però, che continueremo ad amare la strada e il suo
perdersi
e ci accorgeremo che ciò che quel giorno chiamammo dolore in realtà era
un tempo sospeso.
Tralasceremo l’inferno, il muso dei cani arrabbiati e bavosi,
la paura delle parole
e in questa terra d’esilio, all’incrocio dei popoli
sulla curva del Mediterraneo,
arriverà di nuovo l’amore, questa notte, in Sicilia.
Non si può negare quanto, leggendo, oggi, il suo Canto della Terra, esso assuma valore universale;
sfogliare l’Atlante Umano Siciliano lo rende vicino alla geografia intima di ognuno di noi,
dimostrando, se ancora fosse necessario, quanto l’occhio principe di un fotografo, di un artista,
sappia cogliere, con investitura profetica, il senso della vita.
Il libro:
Francesco Faraci
Atlante Umano Siciliano
Ed. Emusebooks, 2020
Fotografie: © Francesco Faraci
Atlante Umano Siciliano
15 aprile 2020