di Manuel Beinat
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Viviana Bonura (Palermo, 1999) decide di utilizzare due linguaggi (quello fotografico e quello dell’azione del corpo) e di fonderli all’interno di Born from salt, un libro che si presenta come “un dialogo a una voce”, come un tentativo di replicare, tramite l’azione performativa, una nascita che possa dare nuova forma a un corpo ormai contaminato.
È la fotografia bianca e nera, grezza, a tratti delicata e altre volte graffiata, che dà a questo processo introspettivo una cornice all’interno della quale lo spettatore (o l’osservatore, a seconda dell’approccio visuale o performativo che si vuole attribuire al lavoro) si muove.
Un dialogo unilaterale e la presenza di “impalcature esterne” che devono essere smantellate sono quindi le premesse del lavoro di Bonura, racchiuse all’interno di un libro semplice alla vista e fragile al tatto.
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Born from salt si presenta come un lavoro introspettivo e fortemente incentrato sull’individuo; tuttavia, la presenza suggerita di sovrastrutture culturali anticipa una dimensione più collettiva e sociale del lavoro di Bonura. È infatti curioso il fatto che un complicato processo di decostruzione del sé prenda la forma di un monologo.
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Secondo Ariella Azoulay, critica della cultura visiva, la fotografia ha una forte connotazione sia politica sia civile, che la rende intrinsecamente connessa a una pluralità di voci, di situazioni e di contesti. All’interno del paradigma della cultura visuale la fotografia non è mai la fine di un processo, bensì un punto di partenza. Per Azoulay “civile” significa condiviso, collettivo, abitato, a indicare che siamo tutti cittadini del mondo delle immagini e che l’atto fotografico esclude elementi e abitanti che non riusciamo a vedere, ma che hanno profondamente condizionato ciò che accade all’interno della fotografia. Al tempo stesso, la scrittrice ridefinisce il concetto di “politico” e lo applica alla fotografia intendendolo come atto pratico, volto a ricercare la complessità dell’evento che viene fotografato e a considerare ciò che automaticamente viene escluso da quell’evento. Cosa c’è al di fuori dell’inquadratura? Cosa ha troncato (attivamente o passivamente, in maniera arbitraria o inconscia) l’autore? Chi o che cosa ha condizionato l’evento fotografato che non riusciamo a vedere all’interno dello scatto?
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Il lavoro di Bonura parte quindi dalle viscere del singolo individuo (quelle dell’autrice), ma finisce con il sovrapporre il piano individuale a quello collettivo, politico e civile. Ci si chiede quali siano le forze che l’hanno spinta a considerarsi contaminata, circondata da quelle impalcature esterne.
Quindi la decisione stessa di rinascere, di ripartire dallo stato di crisalide e di ritrovare una nuova identità si fa atto politico. In una società patriarcale volta alla subordinazione della figura femminile, prendersi cura di se stessa, dare consapevolmente forma al proprio sé e alle proprie sovrastrutture, occupare spazio, che sia sulla cellulosa della pellicola, su carta o nella realtà, è un atto rivoluzionario nei confronti di se stessi e del mondo intero. È una forma di protesta che parte dal corpo singolo e sfocia nella collettività, invitando i lettori e gli spettatori a rileggere e a rileggersi.
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Born from salt è un elogio all’oblio, alla perdizione, alla mancanza di significato e un invito a trovare nuove possibili letture. È una storia individuale che parla di morte e di rinascita, di radici, di amore, e di esseri umani come isole sparse nei mari.
È una pausa, una parentesi; e in un mondo velocissimo e iper-rapido, che pretende risultati e dimostrazioni, cosa c’è di più politico e rivoluzionario di uno spazio vuoto, silenzioso, di riflessione profonda?