di Sara Munari
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Gordon Parks nasce a Fort Scott, Kansas, nel 1912 ed è il più giovane di 15 figli. Frequenta una scuola elementare dove agli studenti neri non era permesso fare sport o impegnarsi in attività extrascolastiche.
Dopo il diploma alla scuola superiore, Parks svolge una serie di lavori un pochino strani: giocatore di basket semi-professionista, cameriere e pianista in un bordello. Compra la sua prima macchina fotografica ad un banco dei pegni per 7,50$ e comincia la sua carriera scattando ritratti di donne afroamericane, per piccoli lavori legati al settore della moda.
Parks è un maestro nella narrazione fotografica ed essere nero gli ha permesso di accedere a storie che solo una persona di colore avrebbe potuto avvicinare, data la tensione costante di quel periodo. Il primo fotografo afroamericano a pubblicare su riviste come Vogue e Life, Parks si fa conoscere anche per il lavoro sulla “Grande depressione” per conto della Farm Security Administration. Successivamente il fotografo rifletterà su questa esperienza e i suoi pensieri torneranno nuovamente alla questione dell’intolleranza e alle difficoltà che, come uomo, ha dovuto superare per riprendere anche chi potenzialmente è stato causa di atti di razzismo. Deciderà di prendere le distanze da questo pensiero.
In una sua intervista afferma: “La macchina fotografica è stata la mia arma contro razzismo, intolleranza e povertà”. Forte di questa riflessione esporrà i mali del razzismo, della povertà, la discriminazione e l’intolleranza mostrando le persone che hanno sofferto, a prescindere dal colore della pelle.
Lo stesso Roy Stryker, capo della divisione informazione della Farm Security Administration aveva espresso preoccupazioni per la reazione che avrebbero potuto avere gli altri, nell’agenzia fotografica così come in città, per la possibile assunzione di un fotografo nero.
Alla fine, fortunatamente desisterà e Gordon verrà assunto.
Nel 1948, diventa il primo fotografo nero dello staff della rivista Life, posizione che tiene per venti anni. Riempie la rivista con progetti fotografici sulla vita della gente nera nel sud segregato, del nord degli Stati Uniti e fotografa i grandi leader dell’era dei diritti civili, tra cui Martin Luther King, Malcolm X ed Eldridge Cleaver.
Nel 1955 la rivista Life chiede a Gordon Parks di recarsi in Alabama per fotografare le condizioni di vita delle famiglie afroamericane.
Parks ritrae famiglie a casa, al lavoro nei campi, in città, quando ancora la scritta che differenziava i luoghi adibiti solo a bianchi da quelli permessi anche a gente di colore campeggiava su muri e cartelloni. Peter W. Kunhardt Jr., direttore esecutivo della Gordon Parks Foundation, afferma in un’intervista: “Sentiva che armato di una macchina fotografica e di creatività, poteva raccontare storie mostrando le ingiustizie in America.”
Il suo lavoro sembra scattato negli ultimi giorni di questo giugno, basta osservare alcune delle sue fotografie per capire che le cose non sembrano essere cambiate molto negli ultimi cinquant’anni.
Quasi 60 anni dopo, nonostante i progressi ottenuti in termini di discriminazione e oppressione, fatti contemporanei come quelli che si sono verificati in America, raccontano una storia diversa. In tutti gli Stati Uniti sono scoppiate proteste a causa della morte di George Floyd, soffocato da un agente di polizia.
Poco dopo l’inizio delle proteste molte immagini cominciano a circolare online e la Gordon Parks Foundation, fondata nel 2006 da Gordon Parks stesso, inizia a pubblicare immagini su Instagram scattate da Parks durante gli anni Sessanta. Eccellenti immagini che sembrano essere lo specchio delle centinaia di proteste che accompagnano questi giorni.
Molte delle immagini provengono dalla serie di Parks del 1963 Black Muslims, che gli fu commissionata dalla rivista Life.
Parks è morto da 14 anni ma io sono certa che se fosse ancora in giro, continuerebbe il suo lavoro anche oggi.
La sua lotta rimane attualissima, non è finita, la segregazione razziale sembra viva e vegeta e la capacità di questo fotografo di dare voce a tutti sarebbe indispensabile in questo momento.
Traduzione della lettera scritta da Peter Kunhardt, Direttore Esecutivo della Gordon Parks Foundation
Cari amici,
Gordon Parks non ha mai incontrato George Floyd, ma hanno affrontato la stessa lotta, entrambi conoscevano la forza distruttiva del razzismo, sapevano cosa significa vivere minacciati del sospetto e della violenza esercitati dalle stesse persone incaricate di proteggere le loro vite. Gordon Parks e George Floyd avevano qualcos’altro in comune: la città di Minneapolis. George Floyd ha lasciato Houston per questa città nel 2014, alla ricerca di una vita migliore proprio come ha fatto Gordon Parks 86 anni prima quando vi è emigrato, dal Kansas. In questo stesso luogo entrambi hanno incontrato il razzismo, l’uno sopportandolo a lungo e usandolo come motivazione per il suo percorso di lotta contro l’ingiustizia mentre l’altro non ne ha mai avuto la possibilità. Siamo stati particolarmente rattristati nel vedere gli incendi, forse provocati da organizzazioni razziste, che hanno danneggiato la Gordon Parks High School di St. Paul nella seconda notte di proteste per la morte di George Floyd. Stiamo utilizzando tutte le risorse disponibili per aiutare la scuola a risollevarsi. Proprio come Gordon non è stato fermato dal razzismo, il razzismo non ostacolerà il lavoro di continuare la sua eredità.
Nelle parole dello scrittore Jelani Cobb: “Gordon Parks credeva che il il fatto di portare una coraggiosa testimonianza per contrastare l’ingiustizia della povertà, dell”ineguaglianza, del razzismo e la violenza fosse il primo passo per cambiare la situazione.” (…)
La Gordon Parks Foundation è stata fondata nel 2006 per proteggere e preservare la sua eredità come artista e attivista. Gran parte della sua eredità si trova all’interno dei nostri archivi nelle decine di migliaia di immagini che ci ha lasciato. Ma, come ci hanno ricordato le ultime due settimane di proteste, un’altra parte di questa eredità non è conservata in una stanza a temperatura controllata; è per le strade, è nei canti delle persone che marciano per assicurarsi che la morte di George Floyd sia l’ultima di questo genere.
Peter Kunhardt
24 giugno 2020