di Rica Cerbarano
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A metà tra ricerca antropologica e produzione artistica, il lavoro di Charles Fréger riflette sul concetto di identità culturale attraverso gli individui che compongono le comunità, i codici di abbigliamento che adottano e la gestualità propria dei loro rituali.
Armani/Silos dedica un’ampia retrospettiva a questo grande autore contemporaneo: Fabula, attraverso oltre 250 opere, racconta l’evoluzione della sua particolare opera di catalogazione. A lungo raccolto sotto il titolo generico di Portraits Photographiques et Uniformes, il suo lavoro inizia nel 1999 con le prime serie dedicate ai giovani adolescenti in cerca di una propria identità, per sfociare poi in un interesse più ampio verso la rappresentazione mitologica di costumi, maschere e rituali.
La mostra pone l’accento sull’ultima fase del suo lavoro e la componente teatrale nell’opera dell’autore, che sala per sala si rivela sempre più presente: a evolvere non è solo la tipologia dei gruppi ritratti, ma anche il modo di fotografare dello stesso Fréger, che negli anni si discosta da una certa tradizione nordica fino a raggiungere una dimensione spettacolare, quasi onirica.
La selezione in mostra include ritratti della squadra di pattinaggio su ghiaccio finlandese (Steps), immagini dei giovani lottatori di Sumo (Rikishi), degli eserciti europei e delle loro uniformi di rappresentanza (Empire); fotografie di soldati Sikh (Sikh Regiment of India) e degli elefanti di Jaipur (Painted Elephants), fino alle serie salienti di Wilder Mann e Yokainoshima, dedicate alle maschere tradizionali inserite in un contesto rurale. Ogni comunità ha il suo codice, ma il principio guida dietro l’impulso ad esprimere appartenenza attraverso l’abbigliamento – mezzo di comunicazione non verbale per eccellenza – è in qualche modo comune.
Che si tratti della cuffia bianca del nuotatore o delle maschere rituali indossate in Europa, Giappone, America Centrale e Meridionale, il lavoro di Fréger, che esprime il bisogno dell’individuo di appartenere a una comunità immortalando la forma che questo bisogno assume esteriormente, restituisce una documentazione iconografica delle comunità di tutto il mondo. Ed è anche molto autobiografico, più di quanto si possa pensare.
Seguo e apprezzo il lavoro di Charles Fréger da molto tempo e così ho colto l’occasione per intervistarlo.
Quando hai cominciato a fotografare?
Studiavo alla scuola d’arte di Rouen per diventare un pittore, ma ero molto interessato anche alla semiologia e allo studio delle immagini. Questo interesse mi ha portato molto velocemente a realizzare personalmente delle fotografie e ho cominciato subito a scattare ritratti. La mia produzione pittorica era molto seriale, ero affascinato dalla pop art e mi piaceva molto il concetto di serialità, di ripetizione, e così penso di aver capito subito, fin dall’inizio, che volevo realizzare una serie fotografica e non ragionare sull’immagine singola. Il passaggio dai ritratti alle uniformi è stato praticamente immediato, ho sempre pensato a questi due elementi come complementari.
Come è cambiata la tua produzione nel corso degli anni?
Quando ho iniziato a fotografare avevo 23 anni, ero ancora abbastanza giovane per avere un contatto diretto con gli adolescenti che fotografavo. Attraverso le mie fotografie, riflettevo sulla costruzione dell’identità dei ragazzi che imparano a far parte della comunità: quindi scattavo principalmente nelle scuole, nei circoli sportivi, in qualsiasi tipo di accademia e così via. Ero molto interessato alla relazione tra individuo e identità collettiva. Passo dopo passo, il modo in cui fotografavo è cambiato. Con la serie Empire ho iniziato a fotografare alcune delle guardie di schiena e improvvisamente mi sono reso conto che la questione dell’identità stava passando in secondo piano: l’abito che indossavano era diventato il soggetto delle mie fotografie.
Nel 2004-2007 ho lavorato con l’Opera cinese, dove i ragazzi dovevano truccarsi e acconciarsi per entrare nei panni del loro personaggio, e così ho iniziato a pensare alla possibilità di trasformare la propria identità assumendo il ruolo di un personaggio fittizio. Da lì, il passo verso le maschere è stato breve. La prima serie in cui le ho ritratte è stata Wilder Mann, ma in realtà erano dietro a tutto il mio lavoro da molto tempo.
Ora non analizzo più l’identità individuale in ambito collettivo, ma più che altro la forte identità culturale di alcuni gruppi. Questo cambiamento è visibile nel percorso della mostra.
A proposito della mostra: complice l’architettura del Silos, il percorso espositivo ricorda quello di un cerchio. Comincia e finisce con Water-Polo, una delle prime serie che hai realizzato. Ma la forma del cerchio è presente anche in alcuni tuoi lavori e ha un significato preciso.
L’elemento del cerchio e la sua importanza è cominciato con la serie Rikishi, dove ho ritratto i lottatori di sumo. In quell’occasione, il mio obiettivo era scattare i ritratti all’interno del perimetro dedicato al combattimento e ho negoziato molto perché questo avvenisse. Entrare all’interno di questo cerchio sacro, proibito alle donne e riservato esclusivamente ai lottatori, significava per me entrare all’interno delle dinamiche della comunità, venire in qualche modo accettato, pur con la consapevolezza di essere completamente un outsider. Fotografare una comunità estranea significa anche mettere in discussione la tua stessa identità, chiederti chi sei come individuo, e questo ti porta anche a sentirti estraneo ovviamente.
Quando guardo le tue fotografie sono come sopraffatta dal pensiero che dietro un singolo scatto c’è un lavoro enorme di ricerca e di progettazione. Il risultato è così semplice, eppure ogni immagine è frutto di una precisa metodologia.
Esatto, la maggior parte del mio lavoro viene fatto prima del momento in cui scatto. Per prima cosa, devo trovare le persone, localizzarle, capire cosa fanno e istintivamente sapere se il gruppo ha una connessione con me. Alcune persone a volte mi scrivono “Ehi, conosco questa comunità… potrebbe essere interessante per te!” – il più delle volte non lo è. Questo succede perché rifletto me stesso nel gruppo che fotografo, perché sento che è connesso con me. Spesso è come se avessi già l’idea di cosa voglio fare e di cosa ho intenzione di produrre, tutto sta nel trovarlo.
Alcuni progetti richiedono mesi, altri anni di progettazione, e per questo molto spesso lavoro su più progetti contemporaneamente (la realizzazione di un progetto come Yokainoshima ha richiesto tre anni). Le persone pensano che sia sempre in viaggio, ma in realtà sono sempre davanti al mio computer. L’aspetto logistico è importante tanto quanto il momento dello scatto. Inoltre, quando arrivo sul posto non si tratta semplicemente di scattare due fotografie e via: uso una camera di medio formato, il flash e il treppiede, quindi c’è tutta una fase di preparazione allo scatto molto importante. Bisogna essere sempre molto organizzati.
Navigando sul tuo sito web, ho visto che alcuni degli ultimi progetti presentano la silhouette: niente più vestiti e costumi, solo ombre. Mi ha sorpreso.
Beh, sai quando ti ho detto che i gruppi hanno una mitologia: la silhouette parla esattamente di quella mitologia. Quando lavoro con le silhouette, fotografo le ossa del gruppo. Fotografo qual è la storia dietro e in che modo la mitologia fa parte della nostra cultura. Per La Suite Basque, il primo progetto con le silhouette, dovevo fotografare ballerini, attori, persone che prendevano parte a uno spettacolo, e così ho sentito che fotografarli attraverso la silhouette sarebbe stato un modo per rappresentare direttamente la mitologia che cercano continuamente di mettere in scena.
Considero La Suite Basque come parte di una trilogia sulla cultura francese. Il primo capitolo è stato Bretonnes, poi ho fatto La Suite Basque e ora dall’anno scorso sto facendo un progetto sull’Alsazia, che riflette sull’identità culturale della popolazione tra Francia e Germania. Anche in questo caso, sto realizzando la maggior parte del progetto attraverso le silhouette.
Il catalogo della mostra, distribuito gratuitamente, è disegnato come un album di figurine Panini. Quando l’ho visto mi sono emozionata.
L’album di figurine è qualcosa che fa parte della mitologia di tutti noi. Ero sicuro che sarebbe piaciuto.
La mostra:
CHARLES FREGER | FABULA
Armani/Silos
via Bergognone 40, Milano
12 Gennaio – 24 Marzo 2019
5 febbraio 2019