di Claudia Stritof
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Woodstock ha dimostrato che la convivenza pacifica tra l’umanità era possibile […]
per questa ragione è importante non dimenticare.
(Baron Wolman)
Il festival di Woodstock, tenutosi tra il 15 e il 18 agosto 1969 a Bethel, piccola cittadina nello stato di New York, non è stato solo un evento musicale o un raduno hippy, ma un messaggio condiviso di amore e pace, diffuso attraverso il linguaggio universale della musica. Un messaggio ideologicamente potente, che racchiudeva in sé le speranze di quei giovani che al festival presero parte e i cui comportamenti, così diversi da quelli dei propri genitori, non erano altro che un modo di prendere apertamente le distanze da una politica affarista e guerrafondaia. Uno scollamento tra vecchi e nuovi valori che emerge con chiarezza nelle immagini di Baron Wolman, all’epoca fotografo capo della rivista Rolling Stone, il quale ricorda con nitidezza l’atmosfera di Woodstock.
Baron arrivò a Bethel grazie a un progetto sui festival musicali che stava realizzando insieme al fotografo Jim Marshall. I festival all’epoca erano prevalente dedicati alla musica country e al jazz, mentre il rock era ancora piuttosto marginale; infatti, come ricorda lo stesso fotografo, sentirono parlare di Woodstock per la prima volta a giugno, decidendo di aggiungerlo alla lista, perché in fondo “sarebbe stato solo un altro festival musicale tra i tanti che stavamo fotografando”. Non immaginavano che di lì a poco avrebbero assistito a un evento unico nel suo genere.
Baron Wolman, come fotografo capo di Rolling Stone, si era fatto conoscere per il suo stile immediato con cui aveva ritratto i molti musicisti dell’epoca, ma a Woodstock, una volta imbracciata la Nikon, decise di volgere il suo obiettivo verso le persone. Tutto era nuovo e stupefacente: nessuno indossava scarpe da ginnastica, non c’erano magliette con il logo, le mucche vagavano liberamente nei campi, le auto erano state abbandonate lungo la strada; si condivideva il pasto, si meditava oppure si faceva il bagno nudi tutti insieme.
Gli scatti di Baron sono intrisi di simbolismo e mitologia, sono il ritratto di un’intera generazione e, fotografia dopo fotografia, ci mostrano quella che era l’atmosfera di Woodstock, così come la grande organizzazione del festival, il quale era stato strutturato in diverse aree, tutte disposte intorno al grandissimo palco: la zona campeggio, un palco più piccolo per chi avesse voluto esibirsi gratuitamente, la free kitchen, lo spazio market e le strutture sanitarie e assistenziali, le quali vennero affidate a medici, a infermiere professioniste e anche a comunità hippy, che davano aiuto psicologico durante i bad trips causati dall’uso di LSD e altre sostanze.
Per quanto le leggende siano appassionanti – e la tre giorni di Woodstock ne è costellata – il festival nasce come un evento ben strutturato, la cui storia ha inizio quando John Roberts, Joel Rosenman, Artie Kornfeld e Michael Lang decidono di costituire la Woodstock Ventures, una società il cui fine non era solo economico, ma utopico.
Il giorno prima del festival, il 14 agosto, erano già presenti 50.000 persone, molte delle quali senza biglietto, così ai promotori apparve scontata la decisione di rendere il concerto gratuito. Quando le barriere vennero abbattute, le strutture assistenziali e di pronto soccorso iniziarono a dimostrarsi insufficienti e la pioggia, anche se poca, iniziò a cadere su Bethel, ma il problema più grave furono le strade congestionate dalle macchine che non permisero alle band di arrivare in tempo per il concerto. Alle 17.00 si udirono le prime note, quelle di Richie Havens (musicista che in realtà non avrebbe dovuto esibirsi) seguito dal guru Swami Satchidananda e poi da Country Joe McDonald, mandato sul palco con una chitarra in prestito.
Nonostante la line up fosse completamente saltata, l’atmosfera si stava rivelando magica e Woodstock si stava trasformando in un mito da raccontare alle generazioni future. I gruppi erano ispirati e il pubblico lo sentiva, la sensazione – come disse Wolman – era quella di “500.000 persone tutte insieme che si scrollano di dosso le catene di ciò che la società conservatrice si aspettava da loro”.
Dopo il primo giorno di festival, le condizioni igieniche della zona erano pessime, i bagni inutilizzabili e il cibo insufficiente; nonostante questo la gente era felice, proprio grazie allo spirito umanitario dei giovani che avviarono un’autogestione condivisa. Purtroppo il secondo giorno iniziò anche con la morte di Raymond Mizak, schiacciato da un trattore mentre dormiva avvolto nel suo sacco a pelo. Un tragico evento che richiamò l’attenzione dei media e che, unito alle tragiche condizioni igieniche, fece dichiarare l’intera zona “area disastrata”. L’allarme si rivelò essere una salvezza per gli organizzatori, perché permise loro di ricevere assistenza da parte del governo grazie agli aerei dell’esercito che di continuo arrivavano a Bethel.
I concerti ebbero inizio alle 12.15 e sul palco si esibirono tra gli altri i Grateful Dead, Janis Joplin e, ormai a notte fonda, The Who con Pete Townshend che chiuse il concerto frantumando la chitarra. I cantanti e le band ormai si alternavano sul palco senza soluzione di continuità, gli strumenti a causa dell’umidità continuavano a scordarsi e i momenti morti erano colmati da dibattiti, sedute di yoga e preghiere.
La giornata di domenica venne aperta dalle note dei Jefferson Airplane, per chiudersi con quelle di David Crosby, Stephen Stills, Neil Young e Graham Nash, ma la pioggia era ormai incessante e le persone iniziarono ad andare via, anche se molti altri gruppi avrebbero dovuto ancora suonare. Lunedì 18 agosto, alle luci dell’alba, vi furono Paul Butterfield Blues Band, seguiti dagli Sha-Na-Na, fino a che alle 9 del mattino, un gruppo di fedeli ammiratori era ancora lì in trepida attesa per l’arrivo di Jimi Hendrix. Con le note della sua chitarra si chiuse la tre giorni di pace, musica e amore.
Woodstock è stato tutto questo: un sogno a occhi aperti, un momento di amore collettivo, in cui non esistevano barriere, né divisioni di genere e se, probabilmente, fu solo una bellissima illusione, per pochi giorni si trasformò in una meravigliosa realtà fatta di fiducia e condivisione di ideali, perché come ha detto Baron Wolman, Woodstock ha rappresentato “la promessa di un mondo senza violenza, un mondo pieno di pace, rispetto e compassione e, sì, anche di amore”. Woodstock è “finito troppo velocemente”, perché dopo questa utopica esperienza – aggiunge il fotografo – “il mondo è ritornato rapidamente al suo sé imperfetto”. Catturare lo spirito del tempo è dote rara, ma Baron Wolman è riuscito in questa titanica impresa, lasciandoci oggi un importante deposito di conoscenza visiva e orale, attraverso cui alimentare i nostri sogni per il domani.
Fotografie: © Baron Wolman
6 marzo 2020