Antonio Rovaldi – “Orizzonte in Italia”

di Chiara Ruberti
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E mi sono chiesto ancora, quanto delicata possa essere la noia di un unico orizzonte.
Luca Bertolo

In questo ultimo anno, le poche volte che sono riuscita a viaggiare, l’orizzonte che si è aperto appena varcati i limiti del mio comune mi è sembrato un traguardo esotico, emozionante, irripetibile.
Per non parlare della gioia, quella vera e liberatoria, di quando ho potuto guardare quella linea così familiare dove il cielo si incontra col mare, pensando che prima o poi potremo tornare a superarla, e andare a scoprire orizzonti sconosciuti.

In fondo si stendeva il mare, alto d’orizzonte, ed un lento veliero vi passava.
Italo Calvino, Il barone rampante

Un po’ come l’elce per Cosimo, la pandemia ha cambiato irrimediabilmente la prospettiva dalla quale guarderemo da qui in poi a questo vecchio malconcio mondo nuovo. Ma non ha cambiato la forza della memoria e nella mia c’è un posto anche per il lavoro di Antonio Rovaldi. Per la poesia e la forza di quella parete che chiudeva la mostra inaugurale di Osservatorio Prada (Give Me Yesterday, a cura di Francesco Zanot, 20 dicembre 2016 – 12 marzo 2017) e che in me risuonava toccando la corda della mia appartenenza viscerale alla costa, ma che soprattutto mi interessava perché aggiungeva un tassello di senso fondamentale all’intero discorso e percorso espositivo, andando coraggiosamente – e genuinamente – a interrogare il mezzo fotografico. In una mostra che esplorava gli esiti contemporanei della fotografia come diario personale e nella quale molto spazio avevano i giovanissimi autori e il cortocircuito generato dalle tecnologie digitali e dalle piattaforme di condivisione, il lavoro di Rovaldi condensava il tempo e l’emozione, smettendo improvvisamente di rincorrerli. Frutto di un lento e parsimonioso accumulo, le sue immagini, come le note di una delicata partitura musicale, si disponevano sulla parete aprendo un mondo, che era a un tempo traccia di un’esperienza, personale e circoscritta, e di un immaginario, collettivo e sconfinato.

Orizzonte in Italia / Fondazione Prada – Osservatorio / Give Me Yesterday, a cura di Fancesco Zanot, 2016

Rovaldi ha compiuto un lungo viaggio in bicicletta nel 2011 percorrendo il perimetro costiero del nostro paese da Trebiano (Liguria) fino a Trieste (Friuli Venezia Giulia) – per un totale di 3514 chilometri, 180 banane, 38 pellicole 120 Kodak 400 colore e 1 pellicola Hilford HP5 400 bianco e nero e 148 fotografie. Questo il materiale che è andato a costituire il primo nucleo del lavoro, al quale nel 2014 si è aggiunto quanto prodotto durante il viaggio, sempre in bicicletta, lungo le coste della Sardegna, raccolto nella serie Mi è scesa una nuvola.

Il prezioso volume Orizzonte in Italia, edito da Humboldt Books e il MAN di Nuoro nel 2015 raccoglie immagini, appunti, disegni e i testi densi e ispirati, da quello di Francesco Zanot a quello di Pier Luigi Tazzi, che ho ritrovato qui con un po’ di sorpresa e molto piacere con Soste (e) Marine. Il volume è sold out e c’è da sperare che presto si decida di ristamparlo.

Nell’attesa, vorrei chiedere all’autore di concedermi una breve danza tra e con le sue immagini, per farmi raccontare qualcosa in più su questo suo lavoro.

Sono nata a Pisa; un quarto d’ora in macchina e sei a Bocca d’Arno, con le Apuane a fare da quinta e la vista che quando sei fortunata ti porta fino a Capo Corso, d’inverno, è bellissimo. In mezz’ora sei a Calignaia, l’acqua limpida, le rocce ocra, le petroliere e dietro il promontorio di Castel Sonnino il mare dell’infanzia e il moletto di Quercianella. In un’ora e mezzo sei all’Abetone e in cima al Monte Gomito, nelle giornate più terse, conti tutte le isole dell’Arcipelago. Un traghetto e in quattro ore sei a Bastia, e la Corsica, che ne parliamo a fare. Se la percorri tutta e attraversi le Bocche di Bonifacio c’è la Sardegna; se scendi fino all’estremo Sud c’è Cagliari, la pisana, e il Camping Capo Ferrato dove ho guardato per molte estati la luna piena sorgere sul mare, alla rovescia.
E il mare l’ho cercato sempre, ovunque sono andata girovagando. In Grecia l’ho guardato, ma poco e spesso perché a guardarlo erano i resti meravigliosi di una civiltà antica, come a Capo Sunio. In Portogallo e in Messico ho incontrato l’oceano, l’Atlantico, quello che fa la voce grossa ma poi lo sai che, squali a parte, mica ti fa paura davvero. In California ho ascoltato il Pacifico, profondo e solenne come le balene che lo solcano e immenso come il figlio che abitava già nella mia pancia quando ho trovato il coraggio di tuffarmi. Molti altri sono i mari della mia vita, ma questi i più importanti.
Tu sei nato a Parma, il mare là forse si vede dalle cime dell’Appennino. Qual è il tuo mare? Quale la tua isola?

Lo scrittore sardo Marcello Fois direbbe che in pianura non c’è il mare – così come scrisse per la sua Sardegna nel 2008 – e Marco Belpoliti, nel suo ultimo libro, che la pianura è un mondo. In pianura, dove sono cresciuto io, in inverno sale la nebbia e si dice: “stasera si vede poco niente, c’è un mare di nebbia”. Negli ultimi anni la nebbia si è come dissolta e il paesaggio è diventato monotono, non si assiste più a epifanie.
In pianura, dove ho coltivato i miei primi sguardi, il mare l’ho sempre visto. Un mare bianco, che si alzava e si abbassava, coprendo e rivelando il paesaggio. Si potrebbe dire che noi, gente di pianura, siamo cresciuti in un mare di rivelazioni. Suona enfatico, ma un po’ è così. Il mare, quello vero, dove andavo da ragazzo – e dove continuo ad andare quando voglio staccare con Milano – è il mare della Liguria di levante, dove ho una casa che si affaccia sulle Alpi Apuane e dove sono partito per il mio viaggio orizzontale nella primavera del 2011. Sono uscito di casa la mattina presto da Trebiano e, quando in bicicletta ho imboccato la prima statale, mi sono reso conto che l’avevo caricata troppo. Sono tornato a casa risalendo il colle, ho alleggerito le borse e sono ridisceso.
Orizzonte in Italia è stato un continuo fermarsi, soppesare e ripartire, tanti di km al giorno, innumerevoli soste per fotografare l’orizzonte e appuntare su un quaderno rosso quello che vedevo: l’ora dello scatto, il numero della pellicola, il giorno, la meteorologia. Durante il viaggio ho mangiato 180 banane e ho scattato ben oltre le 148 fotografie che hai visto alla Fondazione Prada ma alla fine, si sa, bisogna sempre compiere una scelta. La mia isola è il luogo in cui ritorno e da cui sempre riparto: la casa e lo studio dove maturo e ripenso ai progetti.

Il rigore del tuo lavoro – con quella linea dell’orizzonte sempre a metà del rettangolo, con lo sguardo che sempre dalla terra si rivolge al mare – dà vita a una canzone che lontano dall’essere monotona e ripetitiva apre lo sguardo all’imprevedibile, perché nelle tue immagini non c’è niente di prevedibile, come scrive Zanot, “dalla frequenza delle onde alla forma delle nuvole, fino ai colori dell’acqua di cui sono fatte entrambe”. Per non parlare di tutto quello che resta fuori dall’inquadratura, che ciascuno di noi di volta in volta, immagine dopo immagine, va a cercare nel ricordo, nella fantasia, nell’esperienza, nei racconti, nel sogno. Dune, pinete, binari, strade panoramiche, monotoni lungomari, ciminiere, paesi, città, montagne, poggi, chioschi, ombrelloni, tronchi, bambini, vecchi, silenzi, risate, profumi.
Come in un’estrema sintesi del mezzo fotografico stesso che è uno strumento della riproducibilità per eccellenza, stante la possibilità di ottenere infinite copie dalla stessa matrice, ma anche mezzo attraverso il quale difficilmente si otterranno due fotogrammi identici.

La fotografia non ripete mai sé stessa, così come è vero il contrario. Chi non ha mai fotografato un orizzonte, un mare, un cielo, una montagna, o tenuto un diario? Ogni fotografia, se scattata a distanza di poco tempo da quella precedente, nella stessa identica posizione, sarà sempre differente. C’è sempre qualcosa che si muove nel paesaggio; il mare, poi, da lontano, ci appare immobile ma in realtà è sempre in movimento. La terra non si ferma e colui che decide di guardare una porzione di paesaggio in un preciso momento, con una durata più o meno ampia, seleziona un punto tra una costellazione infinita. Forse anche le immagini sono come stelle. Le guardi, credi che ci stiano parlando di un luogo specifico, di quello che hai davanti agli occhi, ma in realtà ci stanno suggerendo un altro spazio, un altro tempo che è dietro di noi, o più avanti…
In questi giorni ritorno spesso al titolo di un libro di John Berger: E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto. Una lettera d’amore. Un libro piccolo, stupefacente!
La fotografia, come le cose della vita, è un atto che implica una scelta: devi decidere cosa deve stare dentro e cosa fuori. A volte, la fotografia, può essere fastidiosa.

Orizzonte in Italia è un’immagine complessa che si è formata nel tempo, attraverso un accumulo di sguardi. L’immagine di quella lunga sequenza di orizzonti marini è sempre uno sguardo parziale su una geografia che cambia costantemente, perché i primi a cambiare siamo noi che guardiamo. Io, per esempio, sento che vorrei ripercorrere lo stesso viaggio del 2011, ma dalla parte opposta. A volte penso che potrei fare la stessa identica cosa, avanti e indietro, da est a ovest, da ovest a est, finché ne ho le forze. Sarebbe sempre un’immagine differente. È una questione di punteggiatura, di pause, di ritmo. Il paesaggio è una distanza e un tempo, così come una distanza e un tempo sono contenuti nella pellicola fotografica. Quando la pellicola finisce, in un certo senso finisce anche il paesaggio che hai di fronte. Ovviamente lo sto dicendo da autore che, prima di organizzare un progetto, coltiva nella mente un’immagine complessa, un desiderio che spinge per trovare una forma. Questo è un discorso che contiene molteplici direzioni e tutte molto vaste e non riguarda solo la rappresentazione del paesaggio attraverso il mezzo fotografico, ma il nostro modo di attraversare, stare e essere nei luoghi. Il nostro riflesso sulle cose. I nostri volti, anche, leggeri come foto.

La bicicletta e la fotografia, strumenti diversi utilizzati qui per uno stesso scopo: quello di percorrere una distanza. Da una parte la strada sotto le ruote e forse una linea rossa su una mappa, dall’altra una serie di fotografie che, ordinate in sequenza cronologica, disegnano un profilo inedito, fino a quel momento sconosciuto, dell’Italia.
Vorrei, questo lavoro, averlo fatto io. Per esempio quella volta, tanti anni fa, quando ho percorso su una Vespa 125 azzurra tutta la costa del Peloponneso. E invece molti di quegli orizzonti li ho già perduti. Ma va bene così, li hai raccolti tu per me, anche se non sono proprio quelli.

Due giorni fa, riordinando il mio archivio, ho ritrovato tra cumuli di scartoffie un progetto in forma cartacea della mia amica artista Rä di Martino dal titolo Works that could be mine and works that I would like could be mine. Rä aveva chiesto ad artisti quali erano opere di altri artisti, morti o viventi, che avrebbero voluto essere stati loro a realizzare. Io risposi che avrei voluto realizzare l’ultima – e definitiva – opera di Bas Jan Ader In Search of The Miraculous. Ora, ripensandoci bene, sono felice di non essere stato io a partire su quell’instabile barca da Cape Cod il 9 luglio del 1975 – mi basta pensare di essere nato lo stesso giorno di quell’anno – perché poi, Ader, non ha mai fatto ritorno a casa e i resti della sua barca sfasciata sono stati trovati l’anno successivo lungo le coste irlandesi.
Questo per dire anche che mi fa molto piacere se mi confessi che avresti voluto essere stata tu a realizzare Orizzonte in Italia. Del resto, ci sono alcune immagini che appartengono davvero a tutti quanti in egual misura. Se un’opera da qualche parte nasconde una verità, tra i suoi mille inciampi e ripensamenti, questa poi diventa territorio di tutti e ognuno di noi è libero di collocarsi al suo interno. Eugenio Turri, un geografo che ho sempre amato, letto e riletto nel tempo e che mi spiace non avere potuto incontrare in vita, direbbe: Il paesaggio come teatro.

E sì, Chiara, mi sono chiesto anch’io quanto delicata possa essere la noia di un unico orizzonte.

Ma per ora va bene così!

Fotografie: © Antonio Rovaldi

 

29 marzo 2021

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