di Claudia Stritof
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Provocatorio, ironico, graffiante. Molti potrebbero essere gli aggettivi utilizzati per descrivere Allen Ginsberg, il profeta della Beat Generation; ma a cosa serve rinchiudere una personalità così multiforme in sterili etichette?
Allen Ginsberg rifugge da ogni categoria per connotarsi di mille accenti diversi; sarebbe impossibile definirlo solo poeta, perché fu un intellettuale stimato, per molti un mentore da seguire, un uomo sempre pronto ad apprendere, attivista e difensore dei diritti umani e, non in ultimo, appassionato fotografo. Attività non scindibili l’una dall’altra, perché diretta emanazione della sua raffinatissima sensibilità volta allo svelamento delle labili sovrastrutture sociali che allontanano l’individuo dalla genuina conoscenza del mondo.
Sfogliare l’album di famiglia di Allen Ginsberg vuol dire viaggiare on the road dall’India al Marocco, dall’Italia all’America, passando per il Messico, Francia, Kenya e molti altri paesi da lui visitati; assaporare il clima vissuto dai giovani dell’epoca, comprendere gli scambi intellettuali che hanno portato alla creazione di grandi capolavori della Beat Generation e osservare i volti delle più “belle menti” della controcultura americana: Jack Kerouac, Neal Cassady, William Burroughs, Lawrence Ferlinghetti e via discorrendo.
La passione di Ginsberg per la fotografia nasce casualmente nel 1953, quando acquista una Kodak di seconda mano per fotografare le giornate trascorse in compagnia di amici, colleghi e conoscenti.
Sono gli anni in cui Ginsberg compone e pubblica l’eccezionale opera Howl, viaggio nella fervida mente dell’autore e grido di protesta contro un’America conservatrice e corrotta, scritta con un linguaggio diretto e brutale, depurato dalle ampollosità della poesia contemporanea.
Come scrisse l’amica della Beat, Fernanda Pivano, che per prima ha curato la traduzione italiana del poema per la raccolta Jukebox all’idrogeno pubblicata da Mondadori nel 1965: “Howl […] è costituito da versi spogli e purissimi, appoggiati soprattutto sul ritmo, e, in un certo senso, popolari”.
Pivano li definisce versi “spogli e purissimi”, “popolari”; tre aggettivi che potrebbero riferirsi alle fotografie di Ginsberg: le quali sono frutto dell’assoluta vicinanza del poeta ai soggetti ritratti e che non celano nulla della realtà da loro vissuta, il che denota un uso amatoriale del mezzo e non certo ammantato di velleità artistiche.
Il rapporto di Ginsberg con la fotografia è stato ampiamente indagato fin dalla sua prima mostra, tenutasi alla Holly Solomon Gallery di New York nel 1984. Nell’esposizione emerge il linguaggio intimo e colloquiale delle immagini, frutto della relazione diretta di Ginsberg con i suoi soggetti, aspetto sottolineato anche dalla presenza di lunghe didascalie scritte a mano sulla cornice delle fotografie dallo stesso Ginsberg.
Non sfuggirà il ritratto di Gregory Corso, “Poetus Magnus”, vestito come fosse un mago nella sua soffitta parigina nel 1957; quello di Paul Bowles e Christopher Wanklyn a Marrakech nel 1961; i molti scatti realizzati in India, durante il lungo viaggio intrapreso con l’amico e poeta Peter Orlovsky e da citare ancora la bellissima fotografia scattata a Tangeri, che vede nelle insolite vesti di bagnanti, Orlovsky e Jack Kerouac, mentre William Burroughs è sdraiato sulla spiaggia arsa dal sole.
Allen Ginsberg non era solito parlare della sua vita, nonostante ciò le sue opere letterarie e le sue fotografie ci raccontano molto sulla sua esistenza e della sua storia, confermando la natura diaristica del sul corpus di lavoro, animato dal desiderio di “fissare in eterno alcuni momenti” estrapolati dal vortice dell’esistenza.
Intorno al 1963, Allen Ginsberg – ormai completamente immerso nella letteratura – abbandona la fotografia, per riscoprirla successivamente, nel 1984, data a cui risalgono anche le didascalie apposte sulle immagini.
È il suo assistente dell’epoca, Raymond Foye, a raccontare in una lunga intervista realizzata da John Shoesmith per the Allen Ginsberg project il ritrovamento dei rullini negli archivi del poeta, all’epoca in deposito alla Butler Library della Columbia University.
Ginsberg aveva dimenticato le pellicole e, alla loro vista, rimase piacevolmente colpito, sia per l’alta qualità delle immagini – perfettamente in linea con le tendenze estetiche degli anni ’80 – ma soprattutto per il loro contenuto, perché all’interno di quei rullini veniva narrata l’intera storia della Beat Generation e non da qualcuno estraneo al movimento ma da chi lo aveva creato.
L’interesse e l’apprezzamento dimostrato da critica e pubblico, fece rinascere in Ginsberg l’amore verso la fotografia, che ora, su consiglio dall’amico e fotografo Robert Frank acquista una Leica e una Rolleiflex, consigliato anche da Berenice Abbott e Hank O’Neal.
In questi anni scatta soprattutto fotografie dei suoi amici e, tra i ritratti, naturalmente quelli dei propri maestri Frank e Abbott, di Francesco Clemente, Bob Dylan e Philip Glass, compositore con cui, poco prima di morire (nel 1997), registrò la bellissima Ballad of the Skeletons, che vedeva presenti, oltre a Glass, anche Lenny Kaye, Marc Ribot e Paul McCartney, mentre il video era stato diretto da Gus Van Sant.
Ballad of the Skeletons ribadiva la contrarietà di Ginsberg alle politiche governative e, prendendo ispirazione dalla tradizionale festa messicana, attaccava duramente le vanità della società contemporanea.
Poesia, musica, televisione, radio, editoria: ogni mezzo è stato usato da Ginsberg per divulgare il proprio pensiero e la propria libertà intellettuale e, in questo processo, la fotografia non è stata da meno; in quanto espressione di consapevole presenza nel mondo.
Per chiudere mi piacerebbe citare il bellissimo scatto fatto a Harry Smith, pittore, archivista, antropologo, regista e alchimista, da molti ritenuto un genio, da altri un ciarlatano, fu una delle più importanti personalità del gruppo Beat. Ironico e surreale, così lo ricorda Ginsberg nella celebre fotografia scattata mentre “Harry trasforma il latte in latte”.
Operazione tautologica per una fotografia sagace che ben trasmette il carattere del personaggio ritratto, nonché l’ironia e la genuinità di Ginsberg, sensibile interprete del mondo e poeta d’esistenza.
Come lui stesso ha affermato: “la poesia non è un’espressione […] È il tempo di notte, dormire nel letto, pensiero di quello che realmente pensi, rendere il mondo privato pubblico, è questo che il poeta fa”; ed è questo che Ginsberg ha fatto: ha reso possibile credere che la solidità culturale della persona possa essere arma intellettuale da usare contro il qualunquismo dilagante nel nostro quotidiano.
Per approfondimenti sull’opera di Allen Ginsberg:
Allen Ginsberg Estate
https://allenginsberg.org
IG: https//www.instagram.com/allenginsbergofficial/?hl=en
29 marzo 2021