Esiste un attimo, preciso, in cui dirsi addio è giusto?
Ci si illude, spesso, che non basti decidere che l’addio abbia un cominciamento per far sì che accada davvero, gli innamorati lo sanno bene. E come questi ultimi anche chi ha che fare con la Fotografia, sovente, immagina – non a caso – che le immagini riescano a fermare, per sempre, persone, istanti, racconti, vite. È che poi, oltre l’obiettivo, la pellicola, la stampa, il mondo va avanti, gira gira gira e porta con sé l’esistenza umana anche di chi non vorremmo mai perdere dalla nostra inquadratura.
Sono giorni distopici in redazione: mentre a Lucca il programma del Photolux avanza spedito tra workshops, incontri e World Press Photo, due cari amici hanno scelto di lasciare solo i propri scatti a memoria futura. Abbiamo ricordato con affetto e stima Elliott Erwitt e ora ci tocca dire addio a un fotografo, certo, ma soprattutto a un caro, immenso, amico: Ivo Saglietti, il reporter umanista, come lo aveva definito qualcuno.
Senza dubbio, qui, in ore così tristi siamo rincuorati dal sentirci fortunati in un certo qual modo, Saglietti, vincitore di ben tre World Press Photo, è stata una figura di riferimento per il Photolux ma anche, precedentemente per il Lucca Digital Photo Fest.
In una conversazione del 2011 tra lui e il direttore del Photolux e del Magazine, Enrico Stefanelli, avvenuta ad Amsterdam in occasione della terza assegnazione del World Press Photo, Saglietti parlava del reportage come di un ‘mestiere da artigiano’ legato, però, ad una sorta di ‘missione’. Nelle sue parole il tradursi di uno sguardo che sapeva osservare il mondo e le sue dinamiche in maniera acuta, non già e non soltanto per la sua esperienza dettata dall’incedere di quei settimanali che lo avevano reso presenza della Storia – Newsweek, Der Siegel, Time, The New York Times – in luoghi di contestazioni, conflitti, dittature e molto altro, ma anche e soprattutto per quella necessità di espandere il racconto con un tempo più lungo, più profondo, tanto da far sì che ogni singolo scatto fosse il fotogramma di una narrazione per immagini che si muoveva su una linea del tempo ampia, così come tra paralleli e meridiani.
Tanto s’è detto di lui e della sua carriera, i tanti premi e riconoscimenti lo hanno acclamato quale reporter afferente a quella ‘scuola’ di fotografi empatici, figli di un umanesimo novecentesco, in cui molti destini, seppur divisi da un obiettivo fotografico, non avevano quasi confine. Ancora con Stefanelli Egli si raccontava come ‘lupo solitario’ e perciò un perfetto fotografo…
Con quello che s’addice a uno scrittore, affermava poi ‘le emozioni non le ho tanto nel momento della fotografia ma mi vengono dopo, e mi vengono anche dopo molto tempo. Io lavoro principalmente in pellicola ed è nel momento in cui ritorno sulle fotografie che ho fatto che comincio ad emozionarmi, quando vedo quella foto che racchiude in sé quello che io cerco in una fotografia che è quell’istante di umanità. E poi anche dopo, perché col tempo vado a rivedere i provini e magari scopro una foto che non avevo visto, non avevo preso in considerazione e si, tutto questo è emozionante.’
Negli anni Ivo Saglietti ha tenuto diversi workshops al Photolux Festival, tornando a Lucca dopo diversi anni dalla personale Car Crash dedicatagli dal Lucca Digital Photo Fest e dal premio che gli era stato tributato, lasciando molto della sua visione anche qui…
Sembra tutto molto strano, non scrivere a proposito del lavoro di Ivo Saglietti, di cui non ci stancheremmo mai, pensiamo ad esempio al lavoro, poi trasformatosi in libro ed ospitato come mostra al Photolux, Sotto la tenda di Abramo, che proprio ora sfogliamo e gelosamente custodiamo qui nella nostra biblioteca; la stranezza è scriverne perché non è più, ‘una persona schiva ma una bella persona dentro’ come ricorda Stefanelli e come sentiamo di dover ricordare tutti.