di Azzurra Immediato
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Cosa resta di quel che non è più?
Forse una fotografia cantava Paolo Conte.
E molte coincidenze.
Come quella che mi porta a scrivere questo focus on. Di un 2020 strampalato, stravolto, l’autunno si sta rivelando un momento di “scatto” proteso in avanti tramite la fotografia: dall’Emilia Romagna alla Lombardia, dal Piemonte alla Toscana ove in dicembre tornerà, a Lucca, il Photolux Festival.
Un panegirico, penserete.
Avete ragione, ma questa piccola mappa serve alle coincidenze, che prendono avvio nel 2018 proprio al Photolux dove, impegnata con Paolo Verzone nel workshop Cabinet Fantistique ho conosciuto tra i partecipanti il giovane, talentuoso Marco Marucci. Poi, d’un tratto, nel programma 2020 del festival ferrarese Riaperture, leggo il suo nome, quello della sua personale e dei suoi talks. Come sempre capita a Paolo Verzone e me, seguiamo il percorso dei partecipanti ai nostri workshops lucchesi e Marco Marucci è cresciuto molto negli ultimi due anni, perciò ho preso il treno e sono andata a trovarlo a Ferrara, per vedere la mostra Apollo. Nonostante gli accordi e gli appuntamenti, ci siamo incontrati, per una coincidenza, in una stradina del centro storico e abbiamo raggiunto insieme la mostra che, per la prima volta, vedeva anche lui allestita alla Cavallerizza.
La sorpresa e lo stupore che si celano negli occhi di un artista o di un fotografo che vede per la prima volta le proprie opere allestite, anche per mano di altri esperti, credetemi, sono tangibili. Ed è stato così anche stando accanto a Marco Marucci.
Ma cos’è Apollo?
È un lavoro nato nel 2013, frutto, ovviamente, di una coincidenza.
In un periodo di degenza ospedaliera, Marco conosce il suo compagno di stanza, un uomo proveniente dal mondo del circo e delle giostre, che lo inonda con i suoi racconti; la fascinazione ha originato l’idea di un lavoro sull’universo circense. Marco scopre che nella città in cui vive, Torino, ci sono ben due scuole di circo: attraverso di esse entra in contatto con Lenny, borghese di nascita divenuto nomade circense che, fidandosi del Marucci, lo invita in Romagna a stare una settimana con il Circo Apollo, erede del noto Nando Orfei. Il fotografo, in questa sorta di allegorica residenza artistica, scopre un mondo suddiviso rigidamente: gli artisti, figli d’arte a loro volta, da un lato e gli operai, spesso d’origine slava o indiana, dall’altra; in tale diarchia sociale tutto è opposto: orari di lavoro, condizioni di vita. Spazio e tempo sono dimensioni uguali e contrarie…
Il Circo Apollo, nato nel 2007 e in attività sino al 2018, ha rappresentato il momento finale della carriera di Nando Orfei, domatore di fiere feroci per antonomasia, che ne divenne direttore artistico, distaccandosi dal passato, “per scelta” si disse, o forse per costi esorbitanti. La sua scomparsa, nel 2014, ha portato il Circo Apollo ad una decadenza sempre più incombente, frutto anche di quella corrente, nota come “circo all’italiana” – ben differente dal nouveau cirque, teso alla teatralizzazione coreografica – rimasta, in verità, sempre uguale a sé stessa, nella sua semplicità d’offerta di spettacolo e, dunque, d’una ricezione numerica sempre più risicata. Ciò ha spinto Marco Marucci a indagare a fondo questo universo, contraddistinto da profonde spaccature, da opposizioni e schematismi rigidi, del tutto invisibili nel climax dello spettacolo.
Tuttavia, il progetto Apollo porta con sé altre specificità: è prova reale di qualcosa che non esiste più. Mediante la tangibilità fotografica, Marucci ha offerto sostanza di una memoria scomparsa; alla sparizione dell’universo circense italiano, labile e destinato ad esaurire la propria forza artistica, fa da eco la scomparsa del Circo Apollo, filiazione dell’eredità di Nando Orfei.
Tutto ciò avviene ancora per malia di coincidenze. Il progetto, terminato in quell’estate del 2013, era finito in un cassetto, scomparso dalla memoria progettuale del fotografo e ne era stato, giocoforza, designato l’oblio. Poi il festival Riaperture, dal tema Errante, ha riportato in superficie queste storie di nomadismi, magie e retroscena, inattese visioni e moti d’animo mutabili e sempiterni a quanto accade sulla scena centrale, sotto i riflettori del circo.
Cosa accade nello spazio celato alla vista del pubblico? Tutto si muove, con ritmo propedeutico ad una filosofia di vita che è altalenanza tra finzione e realtà.
Apollo, invece, è sospensione limbica, è erranza fluttuante di esistenze fuori dalle righe, che racconta ciò che sulla scena e per le strade, si muoveva, senza sosta.
Sino alla fine.
Una fine inattesa, oppure già scritta all’ombra dello chapiteau.
Prima della fine, però, Marco Marucci ha scritto indelebilmente con la traccia fotografica le storie di Lenny e degli altri del Circo Apollo. Persone e Personaggi che intrecciavano le loro quotidianità, secondo un sincopato e a tratti a noi incomprensibile ritmo, con discriminazioni, privilegi e svantaggi, in lunghe ventiquattro ore; nell’arco di una giornata, al buio e alla luce, al sole, alle stelle e ai riflettori si contrapponevano flussi esistenziali capaci di indossare la maschera, il trucco di scena, infinite volte, costantemente diretti verso nuove mete.
Ignoto e normalità, nomadismo e radicalismo uniti da un fil rouge sottile ed impresso come il cerone, come il rossetto e le paillettes, pronto a svanire, come per incanto e per un numero di magia.
Ed è così che è svanito.
Nel suo errare, del Circo Apollo, non è rimasto nulla, se non il ricordo, polveroso, di racconti del tutto nati in coincidenze lontane dal “circus”, lontane da certi compromessi e forse dinanzi ad altri, inattesi, della vita.
Apollo di Marco Marucci, invece, racchiude in sé il fascino dell’apparato effimero, di questa ridondante identità svelata e già scomparsa, nella sua evanescenza legata ad un passato non più riconoscibile. Nell’erranza del tempo, della storia e delle tradizioni, la mostra recentemente ospitata dal festival Riaperture, reitera la magia dell’apparizione e della sparizione, solo che, al posto del cilindro del mago, ad essere al centro della scena ci sono la vita, il suo oblio, l’abisso mnemonico.
Apollo, però, è arte e, come tale, diventa scrigno della memoria culturale, dell’identità collettiva che, seppur sempre in movimento, sa sorprendere, come un salto triplo dall’apice dello chapiteau, nell’ultima notte di spettacolo.
Fotografie: © Marco Marucci, dal progetto Apollo
7 ottobre 2020