di Daniela Mericio
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Arles rimane il cuore pulsante della fotografia internazionale anche in questa strana estate, sospesa tra ombre e incertezze a causa della pandemia. L’attesa 51esima edizione dei Rencontres è stata cancellata, ma il “nemico invisibile” non ha fermato il mondo della cultura: l’associazione Arles Contemporain, composta da gallerie e operatori del settore, ha messo a punto un programma multidisciplinare che promette di non farci sentire troppo orfani, attraverso una proposta che spazia dal cinema, alla musica, all’arte, in cui la fotografia fa la parte del leone. Cerco di pensare alle cose a cui penso che le altre persone non pensino, scriveva Boris Vian in gioventù: all’eclettico musicista francese è dedicata una mostra tributo nell’ambito di Les Pionniers, evento che raggruppa mostre di sei fotografi diversi nei 600 metri quadri della Manuel Rivera Ortiz Foundation (MROF), guidata dal direttore artistico Nicholas Havette. Attraverso lo sguardo di autori capaci di esplorare il mondo in modo non scontato, Les Pionniers ci invita alla riflessione su temi attuali e indilazionabili. Non manca uno spazio-rifugio per gli artisti: sostegno in tempi non facili, fucina creativa, atélier.
Manuel Rivera-Ortiz, presidente della fondazione nonché fotografo, ci ha raccontato qualcosa in più.
Nella presentazione di Les Pionniers si legge: “Vi invitiamo a porvi una domanda… chi sono oggi i veri pionieri, se non c’è più nessuna terra sconosciuta e non ci sono più i grandi esploratori?” Puoi aiutarci a rispondere? Chi sono i Pionieri di cui si parla nella mostra? In che modo ognuno di loro è un pioniere?
Pioniere, in questo caso, non si riferisce a una persona, a un luogo o a una cosa. Con la parola “pioniere” si definisce, piuttosto, un’emozione; un modo di essere in grado di evocare ciò che dovrebbe intrinsecamente appartenere a ciascuno di noi – un moto d’azione che continua a creare anche quando sembra impossibile. Qui alla Fondazione, quest’anno, i Pionieri sono artisti – i cui lavori si articolano in un insieme di mostre – che vogliono esibirsi come programmato, mettendo a disposizione di noi tutti la propria interpretazione visuale del mondo, anche durante una pandemia. Credo che, da una certa angolazione filosofica, Pionieri siano oggi coloro che continuano a percorrere la propria traiettoria artistica mentre cercano, nello stesso tempo, di reagire alle perplessità e alle incertezze del mondo così come lo conosciamo in questo momento tanto particolare.
Ognuno di noi, continuando a fare il proprio lavoro, cerca di tenere vivo un barlume di continuità e speranza, in un momento nel quale sarebbe più facile arrendersi, e dunque è, a suo modo, un Pioniere. Credo anche che i Pionieri qui parlino alla fragilità del mondo. Come persone, attraversiamo la vita pensandoci forti, ma la forza è tanto più pervasiva quanto più è grande il numero di persone che utilizza insieme quella forza. Così spesso, soprattutto durante una pandemia, ci dimentichiamo che, per essere un apripista, non è necessario risolvere i problemi più pressanti del mondo, ma semplicemente basta vivere!
Un pioniere, tradizionalmente, è qualcuno (o un gruppo di individui) che ha dato vita al meglio per il più alto numero di persone possibili. Io penso che siamo fin troppo solenni a pensarla anche solo in questi termini. Per me, un Pioniere può essere qualcuno la cui energia vitale trascende o interseca quella di qualcun altro tanto da aiutare a fare la differenza. Per quello che riguarda me stesso, il mio atto pionieristico, oltre al mio lavoro, è stato in questo caso rendere possible che altri presentassero il proprio lavoro che può, in piccola parte, forse cambiare la vita di qualcun altro. È misurabile questo mio contributo? No; pionieristico è spesso qualcosa di intangibile, difficilmente misurabile. La matematica è misurabile. I numeri lo sono; la cura di una malattia è un’azione misurabile. Qui, invece, gli effetti sugli altri, muovendoci nell’ambito del sublime, non sono quantificabili. Ho vissuto, dunque sono stato. Avendo vissuto ed essendo stato – attraverso gli orrori di un passato che non ho controllato né richiesto – sono anche io un Pioniere!
L’esilio e l’ambiente sono due temi cruciali in Les Pionniers. Tuttavia, i fotografi si approcciano a questi temi con prospettive via via differenti e originali: penso al lavoro di Sylvie Léget, Giving birth in Exile, che mostra la resilienza invece che la disperazione, o a Vision of Taiwan di Wu Cheng-Chang che è una critica ma al tempo stesso parla di speranza e bellezza. È un po’ come parlare invece che urlare. Qual è la tua opinione?
È una diversa derivazione di una prospettiva simile, con risultati leggermente differenti. Vedi, lo spirito ha un ruolo da giocare, qui. Il tempo futuro, contrapposto al tempo presente, è, nel discutibile aggregato del cuore e dell’obiettivo del nostro domani così come lo percepiamo collettivamente, continuità nonostante quello che sta accadendo oggi! Perciò, forse le parole “esilio” e “ambiente” sono troppo forti da usare in questo contesto? No, nella loro essenziale molteciplità, non lo sono. Intendo dire che, nel lavoro di Léget c’è, senza dubbio, l’attualità dell’esilio e della resilienza (così come tu l’hai percepita) e lo spirito di sopravvivenza di fare oggi il massimo, malgrado tutta l’incertezza del domani. Ma il lavoro proietta anche una luce sul futuro, su quello che accadrà alle donne di Léget dopo l’esilio. La calma della continuità sfocia in qualcosa di più grande, seguendo quello che potrà essere il futuro di questi bambini e, per estensione, il nostro futuro! Non possiamo sapere qui oggi cosa ancora deve accadere. Non possiamo sapere se qualcuno di questi bambini nati in esilio diventerà un medico o il prossimo Einstein che svilupperà la propria teoria della relatività, o se invece sarà un tassista o un autista di autobus a Ginevra, in Svizzera! Per lo stesso motivo, non possiamo sapere se qualcuna di queste bambine sarà la prossima Marie Curie, nata polacca e poi naturalizzata francese, che condurrà pionieristiche ricerche sulla radioattività!
In Vision of Taiwan di Wu Cheng-Chang, l’urlo viene dalla sconcertante incertezza di ciò che sarà di popolazioni la cui rilevanza culturale e indipendenza sono appese a un filo mentre noi parliamo. Il lavoro forse non urla, ma le sue implicazioni scuotono le nostre coscienze!
Una delle mostre è un tributo a Boris Vian, un artista eclettico e anticonvenzionale, del quale quest’anno ricorre il centenario della nascita. È stato un musicista, uno scrittore e, in un certo senso, un pioniere. Qual è oggi la sua eredità? Perché avete scelto di rendergli omaggio e in che cosa consiste la mostra?
Per me, e questo è molto importante, il fatto che Boris Vian sia stato un eclettico, scrittore, poeta, musicista, cantante, traduttore, critico, attore, inventore, ingegnere e molto altro, esprime la speranza che, in qualche modo – e so che suona strano a sessantuno anni dalla sua morte – dobbiamo essere come uomini (e donne) rinascimentali, per sopravvivere in questo mondo contemporaneo così competitivo. Oggi non si può più essere pittori solo per amore del dipingere. Non è abbastanza essere un cantante se non si è anche un musicista in grado di suonare uno strumento. Oggi, non è abbastanza fare delle buone fotografie o scrivere dei buoni testi, se non si sa anche editarli e manipolarli per esporli in una mostra. Boris Vian rappresenta una sorta di nostro alter ego che ci ricorda dal passato che quello che ha fatto è ancora attuale. Siamo romanzieri tanto quanto siamo chiamati ad essere anche performer. Se crediamo che la storia e la sua interpretazione inizino e finiscano con la nostra stessa vita, resteremo sempre legati alla stupidità delle nostre incertezze. Boris Vian è stato un personaggio famoso, ma il valore della sua eredità non sta in quanto essa racconti del suo passato, ma piuttosto in quello che può dirci sul nostro futuro.
La pandemia ha inciso sull’organizzazione della mostra? Avete dovuto cambiare, aggiungere o tagliare qualcosa?
Sì! Più che in qualsiasi altro momento, la situazione ha inciso su quello che potevamo, non potevamo o avremmo dovuto fare e sul perché, pesando molto sulle nostre decisioni. Da un lato, la pandemia, il distanziamento sociale, disordini sociali in tutto il mondo; una catastrofe su larga scala. Salvaguardare le persone dal contagio, inclusi il nostro staff e i membri della fondazione, è diventata una questione di prima importanza. Dall’altro, avevamo bisogno di mantenere una certa continuità. Ci sentiamo responsabili nei confronti di una comunità che ci ha dato molto e ci ha accolti fin dall’inizio. La fotografia sta già morendo di una morte rapida e costante, almeno quella che ha a che fare con quotidiani e riviste. Qui alla MROF ci occupiamo di progetti documentari proprio per questo. Quest’anno abbiamo dovuto decidere se aprire o no, ed eventualmente quale versione del progetto presentare rispetto alla mostra originaria.
Quindi abbiamo tagliato, raggruppato. Piuttosto che non fare niente, abbiamo deciso di organizzare almeno qualcosa perché la speranza oggi ha, secondo noi, un ruolo importante da giocare.
Questa pandemia ci ha trasformato tutti in prigionieri di un nuovo e inaspettato ordine del mondo nel quale siamo stati forzati a diventare dei solitari. Siamo tutti scombussolati dall’essere stati rinchiusi in casa mentre tutto intorno a noi veniva chiuso o cancellato. La nostra speranza, nell’aprire le nostre porte, anche se con una mostra ridotta, si mette dunque qui in gioco. Fondamentalmente, la nostra scelta ha a che fare con le ragioni di sempre, ma soprattutto, con l’intenzione di proteggere la sanità collettiva.
Les Rencontres sono stati annullati quest’anno, ma la comunità artistica di Arles ha organizzato un interessante e intenso programma, Contemporary Arles. Inoltre, la vostra Fondazione ha lanciato ACT, un progetto che supporta gli artisti. Puoi raccontarci qualcosa? Cosa potrà vedere il pubblico ad Arles quest’estate?
Arles Contemporaine (AC) è un’iniziativa che esisteva già, prima della pandemia. Quello che abbiamo fatto è stato rivitalizzarla, dandole un nuovo obiettivo in assenza dei Rencontres, rendendola uno strumento corale per tutelare la sanità collettiva della nostra comunità. In casi eccezionali, come la pandemia, è indiscutibilmente meglio unire le forze per domare l’impossibile – una malattia che si trasmette per via aerea e che ha ucciso centinaia di migliaia di persone nel mondo! Per quanto riguarda ACT, l’idea da cui nasce è qualcosa che avevamo già preso in considerazione in passato ma che non aveva mai avuto ragioni così pressanti che ci spingessero a metterla in atto, quando già era molto grande lo sforzo per l’organizzazione delle mostre. Quest’anno, tagliando il programma delle nostre mostre e aumentando le misure di sicurezza con l’aiuto del Comune di Arles, abbiamo ripensato la Fondazione come un possibile spazio/rifugio per gli artisti, in questo momento così difficile. Noi artisti, sicuramente siamo dei solitari, ma lavoriamo meglio con degli input. Dando loro la possibilità di lavorare insieme nel nostro spazio, abbiamo messo a disposizione degli artisti un regno sicuro nel quale possono continuare a unire le forze, usare la propria creatività senza essere rinchiusi, da soli, nelle proprie stanze.
Guardiamo al futuro: quali sono i progetti della MROF? E quali sono i tuoi progetti come fotografo? Ho letto che stai lavorando a un nuovo libro…
I nostri progetti sono molti – o almeno quelli che speriamo e desideriamo realizzare sono molti. Tutti, ovviamente, presuppongono un ritorno a una sorta di normalità. Non sono pronto a parlarne, l’unica cosa che mi sento di dire è che tutto quello che facciamo è sempre rigoroso.
Tutto quello che la MROF fa, in qualche modo, viene dal mio passato, dal mio essere cresciuto in un contesto di povertà. Tutto risale a quella disperazione silenziosa, nella quale non avevo né voce né scelta; a un tempo e a un luogo che, come scrive la famosa scrittrice latino americana Julia Alvarez, era di farfalle. In the Time of Butterflies (Il tempo delle farfalle, n.d.r.), è il titolo di un suo romanzo. Dico farfalle perché quando cresci a Porto Rico, dovunque guardi vedi queste farfalle – grandi, piccole, gialle, Monarca con le loro splendenti tonalità di marrone! Quello che avrebbe dovuto essere un tempo di grande fortuna per un bambino come me che cresceva in un’isola tropicale è stato invece un tempo di sconvolgimento e di sventura. Tutto ciò influenza il mio presente e mi condizionerà sempre. Tracce del mio passato emergono anche da queste mie parole. Il mio presente e anche il mio domani, compresi i progetti ai quali sto lavorando, dipendono da quella sfortuna. Sto lavorando a quattro progetti e spero diventino un libro. Uno di questi, quello più fotografico, dovrebbe a breve essere prodotto. Sugli altri tre, posso dire che si tratta di una trilogia basata sulle parole. Le parole sono l’inizio del mio ora e molto probabilmente saranno anche la sua fine, il canto del cigno del mio domani.
In mostra:
LES PIONNIERS
direzione artistica Nicholas Havette
On n’est pas là pour se faire engueuler – Boris Vian
Vision of Taiwan – Wu Cheng-Chang
Exils Égéens – Mathias Benguigui, Agathe Kalfas
Giving birth in exile – Sylvie Léget
Mapuches. Kuifi Aukiñ Ñi Trepetun (The awakening of ancient voices) – Pablo E. Piovano
Ils ne savaient pas que c’était impossible alors ils l’ont fait – Andréa O. Mantovani
ACT – Action Collective Temporaire – Passage a l’act, act manque & activisme (aperto al pubblico giovedì sera, venerdì e sabato pomeriggio).
MROF – Fondation Manuel Rivera-Ortiz
pour la Photographie et les Films Documentaires
18 rue de la Calade, Arles
3 luglio – 5 settembre 2020
mar – sab: 12-19