di Chiara Ruberti
_
E pensare che ho sempre covato una sorta di inconfessabile pregiudizio nei confronti dei paesi scandinavi.
Poi mi sono scelta un marito che appena può racconta di quell’anno meraviglioso passato ad Aarhus quando ha studiato alla Danish School of Media and Journalism. Poi sono diventata mamma, e ho iniziato a invidiare alle famiglie scandinave quella roba del welfare, dell’attenzione all’educazione, all’infanzia, all’ambiente, alla sostenibilità che avevo sempre ritenuto importante ma tutto sommato ben compensabile con un tuffo a Calignaia, ora che quel tuffo è molto complicato andarselo a fare.
In ogni caso, neanche questo è riuscito a convincermi che là si sta davvero meglio che qua.
Come scrive giustamente Kristen Bjørnkjær nel testo che chiude Halfway Mountain, il primo libro della fotografa italiana Giulia Mangione (Firenze, 1987), se è vero che il World Happiness Report commissionato nel 2012 dalle Nazioni Unite incoronava la Danimarca come il paese più felice del mondo e annoverava i paesi nordici tra i primi posti, è vero anche che quel report “si basa su statistiche che non necessariamente rispecchiano lo stato mentale degli scandinavi che – e basta guardarlo attraverso l’arte che hanno prodotto, da Munch a Strindberg, a Bergman – è notoriamente di abissale oscurità.” È una questione di prospettiva, di “angolo”. La stessa questione che ha dovuto porsi Mangione quando, per il progetto finale della DMJX, ha deciso di concentrarsi sulla Danimarca realizzando un lavoro che è stato poi esposto in vari Festival – mi ricordo di averlo visto a COTM nel 2016, per citarne uno – e che nel 2018 si è concretizzato in forma di libro, edito da Journal.
Approfondiamo con lei alcune questioni legate a questo lavoro.
Da cosa hai cominciato? Quali sono le prime immagini che hai scattato?
La prima immagine buona l’ho scattata il giorno della comunione di Jakob. Appena l’ho vista sul display della macchina fotografica, mi è immediatamente saltata all’occhio. Allo stesso tempo sapevo anche che quella sarebbe stata l’unica immagine che avrei portato a casa da quella lunga giornata. Quell’immagine è importante perché era la prima ad avere quel sapore che stavo cercando; inoltre riassume in sé l’intera situazione, la stanchezza dopo la cerimonia in chiesa, il lunghissimo pranzo con i parenti. In parte è anche un autoritratto.
Ho fotografato le famiglie danesi dal 2014 al 2017; l’accordo era che avrei preso parte alle loro cerimonie e alle loro feste, avrei fotografato e poi ceduto loro a titolo gratuito alcune immagini, mentre ne avrei tenute altre per me. Sapevo che le immagini che cercavo per il mio progetto e quelle che le famiglie avrebbero incorniciato e appeso alle pareti dei loro salotti sarebbero state fondamentalmente diverse.
Quel giorno avevo fotografato senza tregua, attratta come una gazza ladra dallo scintillio della borsetta di paillettes o dall’abbigliamento appariscente di quel parente o di quell’altro, senza sapere bene cosa stessi realmente cercando. Era la prima volta che mi ritrovavo a fotografare una cerimonia ed ero divisa fra il piacere di scattare delle immagini per me e il dovere di scattare quelle per la famiglia. Mi sentivo quasi schizofrenica, perché bisogna essere veramente due persone diverse per poter portare a casa entrambe le foto.
Arrivata alla fine di una giornata molto stressante, quando il pranzo era finito da poco e mi guardavo attorno considerando se fosse il caso di andarmene, un cameriere fece il suo ingresso portando una enorme zuppiera! Non ci potevo credere. Avevamo mangiato fino a poco prima, e allora, alle sei del pomeriggio, iniziava la cena. Guardai Jakob avvicinarsi stanco alla zuppiera e tirar su un ramaiolo di polpette di carne e patate in brodo e pensai che quello era il momento che avevo atteso a lungo, che quella era la foto che riassumeva l’umore della giornata, mio e suo. Non avevo mai usato un flash in vita mia e mi limitai ad agganciarlo alla slitta e impostarlo su automatico. Il flash aveva illuminato quella scena in un modo straniante e artificiale, quasi da tabloid o cronaca nera, e l’immagine aveva assunto altri inconsapevoli significati. Da quel momento non ho mai smesso di usare il flash per questo progetto, usandolo perfino quando non ce ne era bisogno, anche in pieno giorno.
Nel frattempo, grazie al passaparola di amici e studenti danesi, iniziarono ad arrivarmi diversi inviti a cresime, comunioni, matrimoni e compleanni di ottantenni di completi sconosciuti. In queste situazioni potevo cosi osservare la vita sociale danese. Prima di essere invitata a far parte delle celebrazioni familiari di tutte queste curiose e generose famiglie, le mie fotografie erano rimaste sulla superficie, metaforica e fisica, della Danimarca. Avevo fotografato un numero impressionante di siepi, ma anche giardini, mobili, decorazioni e oggetti. Dopo che le famiglie mi hanno aperto le porte delle loro case, le immagini sono diventate più specifiche ma allo stesso tempo più universali, quasi degli archetipi.
Come si è delineata la prospettiva dalla quale hai deciso di guardare la Danimarca e la vita dei suoi abitanti?
Sono partita dalla superficie della Danimarca, perché era quello il mio livello di intimità e di inclusione con il paese. Fotografavo dunque ciò che mi era accessibile. Poi un giorno un’amica danese mi ha suggerito di provare a descrivere la vita quotidiana di una famiglia, e mi ha parlato di padre, madre e bambina, che avrebbero potuto essere interessati a essere seguiti e fotografati. Un incontro conoscitivo fra me e la famiglia fu stabilito. Ero nervosa, come a un colloquio per un lavoro per il quale si sa di non avere un curriculum adeguato. Alla famiglia, invece, sembrava che la situazione fosse molto più chiara. Mentre descrivevo a fatica il tipo di immagini che volevo scattare e cercavo di spiegare perché, Jon tagliò corto dicendo: “quindi significa che tu vivrai con noi e ci fotograferai la mattina quando ci svegliamo e noi dobbiamo fare finta che tu non sei lì e mai guardare in camera, giusto?”
Iniziai così a fotografarli, cercando di cogliere momenti inusuali nella loro routine quotidiana.
Nella tua introduzione al libro racconti che nel corso di questo progetto non hai trovato la risposta alla domanda che in molti ti pongono, ovvero se i Danesi siano davvero i più felici al mondo. Piuttosto questo lavoro ti ha dato la possibilità di capire quello che profondamente ti piace della loro cultura e del loro approccio alla vita.
I sondaggi del World Happiness Report e gli studi di Meik Wiking, autore di diversi libri sull’essere danesi e sulla felicità, sostengono la tesi che la felicità può essere misurata matematicamente attraverso fattori numerici e indici e che possa essere studiata nello stesso modo in cui viene studiata la depressione. Nonostante abbia letto i loro studi e approvato in via teorica i loro argomenti, una riluttante parte di me continua a pensare che la felicità sia un fattore troppo soggettivo e instabile per poter essere calcolato tramite indici e numeri. Quando ho utilizzato le statistiche nel mio libro è stato per me un pretesto per fare dell’ironia.
Come spesso accade nei viaggi, si parte per cercare qualcosa e si finisce con il trovare altro. E nel mio caso a un certo punto è diventato poco importante dare una risposta alla domanda che mi ha fatto iniziare la ricerca, ovvero se i danesi fossero davvero la popolazione più felice al mondo. Quello che ho imparato sono tante piccole cose, come per esempio il fatto che i danesi usano i cimiteri per fare picnic, abbronzarsi, per celebrare la vita, più che la morte. O per esempio che vanno alle højskole (una specie di scuola pre-università) non per ottenere buoni voti, ma per imparare in cosa sono bravi nella vita e cosa li rende felici. E anche che hanno un certo loro innato senso di libertà nel diventare quello che vogliono essere.
Nel 2017, la regina Margrethe, nel suo discorso di buon anno, disse: “Cercate di fare qualcosa che non è necessario, qualcosa di inutile e senza senso. Penso sia importante fare delle esperienze che servano a sviluppare i nostri sensi, ispirare la nostra immaginazione, stimolare la mente e allargare il nostro mondo. In fin dei conti, non è poi cosi inutile.” Questa frase riassume in sé lo spirito del mio viaggio attraverso la Danimarca.
Il titolo del libro. So che l’hai cambiato diverse volte prima di arrivare a questo “Halfway Mountain”. La trovo una scelta coraggiosa, perché non rimanda in modo diretto all’oggetto della tua ricerca. Solo quando si ha libro in mano e si legge la citazione dal romanzo di Aksel Sandemose si capisce che, ancora una volta, quello che hai voluto fare è sottolineare la scelta dell’angolo di osservazione.
Ho iniziato il lavoro nel 2014, quando frequentavo la Danish School of Media and Journalism di Aarhus. Nell’estate del 2016, ho deciso di tornare in Danimarca per finire il lavoro o per lo meno per continuare a scattare. In quell’estate, nella biblioteca di Nykøbing Mors ho trovato l’unica copia in inglese di Un fuggitivo incrocia le sue tracce (1933), un romanzo di finzione con spunti autobiografici, molto importante per la cultura scandinava. È qui che il suo autore, Aksel Sandemose, ha inventato il concetto di “legge di Jante”, una legge che tutti in Scandinavia conoscono, costituita da dieci articoli che ripetono, con qualche variazione, che nessuno deve pensare di essere diverso o superiore agli altri.
Il titolo è tratto dall’epilogo del libro, dove viene descritta Halfway Mountain, una montagna che si trova nella provincia canadese di Terranova e Labrador, la terra dove Leif Erikson arrivò quando scoprì l’America prima di Cristoforo Colombo. L’autore riflette su come questa montagna assuma un diverso aspetto in base alla prospettiva dalla quale viene osservata, ma ogni sua descrizione può essere ritenuta egualmente vera. Per questo motivo Halfway Mountain è diventata per me la metafora perfetta per descrivere qualcosa di così soggettivo e perennemente mutevole come la felicità.
Fotografie: © Giulia Mangione
9 luglio 2020