Anton Corbijn – “The icon maker”

U2, Èze, France, 2000 © Anton Corbijn
di Daniela Mericio
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Ti regala un aspetto da pop star, in un certo senso… non in modo glamour, in un modo personale, intimo.
(
Herbert Grönemeyer)

Credo che la musica abbia iniziato a significare così tanto nella mia vita che volevo
davvero entrare a far parte di quel mondo. È successo, per coincidenza, perché ho scattato una foto.
(Anton Corbijn)

Anton Corbijn rievoca così i suoi esordi, nati dall’incontro tra due passioni, nel video Inside Out (2012), che ne racconta la storia di fotografo, videomaker e regista svelando al contempo alcuni risvolti della sua personalità. Nato nel 1955 a Strijen, in Olanda, racconta di quanto la sua adolescenza sia stata scandita dal ritmo del rock e dalla fascinazione per la musica. Il “momento decisivo” arrivò al concerto dei Solution a Groningen, dove scattò alcune fotografie e le inviò alla rivista Muziek Parade che le pubblicò. Aveva 17 anni, e da lì tutto ebbe inizio.

Non come fotografo di concerti, però, ha raggiunto un’immensa celebrità – il palcoscenico non è un set a lui congeniale – bensì come l’autore che ha regalato alla storia del rock (e dintorni) molte delle fotografie che hanno costruito l’immaginario musicale di una generazione. Quando pensiamo ad artisti o band all’apice della fama, tra la fine degli anni ‘70 e gli anni ‘90, spesso sono le immagini di Corbijn che, inavvertitamente, portiamo impresse nella memoria, perché molte di esse sono riuscite a cogliere – e a comunicare – l’essenza di una rockstar, diventando un punto di riferimento iconografico; complici le innumerevoli copertine realizzate per i protagonisti della scena che in quegli anni esplosivi (segnati dall’irruzione del punk, poi della new wave) hanno cambiato la musica.

La sua cifra stilistica è immediatamente riconoscibile: bianco e nero contrastato, stile essenziale, quasi scarno, privo di orpelli e dettagli pomposi o falsamente glamour; equilibrio ed eleganza, pur nella scelta di inquadrature talvolta inconsuete. Soprattutto, l’occhio del fotografo si concentra sul soggetto, riuscendo a rivelarne il carattere, la complessità, le pieghe più nascoste della personalità.

“Mi considero un fotografo ritrattista che spesso ritrae musicisti” ha sottolineato Anton Corbijn, che ha dichiarato di trovare a volte limitante l’etichetta di “rock photographer” – e certo il suo percorso, negli anni, è andato oltre il rock e anche oltre la fotografia – ma, suo malgrado, l’autore olandese ha rivoluzionato il linguaggio fotografico legato alla musica, in quel periodo d’oro.

Joni Mitchell, Santa Monica, 1999 © Anton Corbijn

Una selezione dei suoi scatti tra i più leggendari si può ammirare, fino all’11 aprile 2020, alla Galerie Anita Beckers di Francoforte: una mostra quasi intima, a misura di appassionato; un campione, molto rappresentativo, della sua sconfinata produzione. I ritratti in bianco e nero – Corbijn ha utilizzato il colore con parsimonia, nella sua carriera – di grande formato, sono, intensi, forti, incisivi: sono tratti dalla serie #5’ e dal suo “periodo lith-print”, tecnica di stampa che conferisce alle fotografie un aspetto quasi scultoreo, grazie alle alte luci morbide, dai toni caldi, e alle ombre nette e marcate. Per inciso, Corbijn non si è mai del tutto “convertito” al digitale, che utilizza solo per stampa e post-produzione, rimanendo fedele all’analogico che lo ha visto nascere come fotografo.

Nick Cave e il suo sguardo corrucciato, Joni Mitchell, Depeche Mode, Kurt Cobain e i Nirvana, Joy Division, Arcade Fire, Coldplay, il volto espressivo di Tom Waits, Rolling Stones, Metallica e Lou Reed, Morrissey, Michael Stipe e i REM, Jeff Buckley, David Bowie, Patti Smith, Iggy Pop, Bjork… si sono tutti “arresi” all’obiettivo di Corbijn. La lista è lunga e, peraltro, include attori, modelle e celebrità di ambiti diversi (Clint Eastwood, Kate Moss).

Le immagini contrastate, dalla grana evidente, spesso sono percorse da ampie aree dense e scure; le inquadrature a volte tagliano il soggetto in modo inusuale, ma comunque “rivelatore”, anche se è ripreso di spalle e, talvolta, perfino da lontano. Come ha spiegato il fotografo rievocando il periodo londinese della sua carriera: “ero più interessato a usare la persona per visualizzare la musica […] Il mio approccio era quello di guardare l’uomo in un ambiente”.  Talvolta le fotografie sembrano un gioco fatto di maschere o travestimenti, condotto di comune accordo tra l’autore e il soggetto (celebre il ritratto di Mick Jagger in abiti femminili). Di alcuni musicisti destinati ad entrare nell’olimpo del rock, Corbijn ha definito l’identità, creato l’immagine, regalando loro autorevolezza o un’aura di mistero, pur conservando nel risultato – e qui stava la novità – un aspetto di autenticità, realizzando “i ritratti più belli e intelligenti” (Pohlmann) di un mondo effimero.

Bjork, London, 1995 © Anton Corbijn

La sua collaborazione più nota è quella con gli U2, un sodalizio più che ventennale che Michael Stipe dei REM ha ironicamente paragonato a un matrimonio, cominciata a New Orleans, quando Corbjin, che doveva realizzare un servizio per il settimanale inglese New Musical Express (NME), fotografò per la prima volta i quattro imberbi musicisti irlandesi. Una lunga avventura, illustrata nel volume U2 & io. Fotografie 1982 – 2004 (Rizzoli, 2005)Le 375 immagini sono accompagnate da didascalie e aneddoti stampati nel corsivo di Corbijn, che donano al libro l’immediatezza di un imponente diario in cui si percepisce il percorso di maturazione della band e, di riflesso, quello parallelo del fotografo olandese. Tra le pagine, emerge la forte sintonia tra il gruppo e Corbjin, definito il “quinto U2” per la sua influenza nelle scelte artistiche di Bono e compagni. Da ricordare, tra le copertine passate alla storia, The Unforgettable fire (l’effetto drammatico è dato dalla pellicola a infrarossi) e The Joshua tree (il cui titolo nacque da un’intuizione del fotografo).

Altro illustre connubio, quello con i Depeche Mode, per i quali Corbijn ha realizzato non solo fotografie ma anche, fin dagli anni ’80, i video dei brani più celebri. Tra le clip memorabili, Enjoy the silence (1990) in cui Dave Gahan vestito da Piccolo Principe e munito di sdraio, vaga in un paesaggio solitario, alla ricerca di tranquillità (silence), bene prezioso anche per i potenti della terra. Un’impostazione molto poco tradizionale, tanto che in principio la band non ne voleva sapere, ma alla fine Corbijn la spuntò. La sua carriera di videomaker si è dispiegata parallelamente a quella di fotografo, e altrettanto felicemente: tra gli innumerevoli esempi, il video di Heart shaped box dei Nirvana, premiato con due MTV Video Music Awards.

Dal videoclip al cinema, il passo è stato breve. Oltre al recente Spirits In The Forest (2019), film concerto dedicato ai Depeche Mode e ai loro fan, vi sono thriller di successo: The American (2010), A most wanted man (2014); Life (2015) che narra dell’amicizia tra James Dean e il fotografo Dennis Stock e, soprattutto, il suo primo film: Control (2007), biografia di Ian Curtis dei Joy Division. Anche con la band britannica si era creato un forte legame emotivo: Corbijn li aveva fotografati nel 1979 a Londra, dove si era trasferito sulla scia della passione per il nuovo sound di cui la metropoli inglese era la capitale. Lo scatto della band di spalle sulle scale della metropolitana londinese, con il solo Ian Curtis voltato verso l’obiettivo, all’inizio considerata troppo fuori dagli schemi, divenne un’icona quando il cantante si suicidò, pochi mesi dopo.

Le immagini di Corbijn, sebbene molto studiate, hanno un carattere di immediatezza che le rende simili ad istantanee. Il fotografo seleziona con grande cura il set dello shooting,  predilige la strada o ambienti che nulla hanno a che fare con lo studio. L’effetto è quello di uno scatto autentico, non costruito. La texture dalla grana evidente, le ampie sezioni sottoesposte, le aree non nitide, volutamente sfocate, rendono le fotografie a volte imperfette ma “vive”, come ha affermato lo stesso Corbijn: “la perfezione spesso toglie il respiro all’opera. Certo, sono sottili sfumature, forse non sono davvero percepibili, ma penso che il mio lavoro respiri ancora”.

 

ANTON CORBIJN
Galerie Anita Becker
Braubachstraße 9, Francoforte sul Meno
fino all’11 aprile 2020

mar – ven: 11:00 – 18:00
sab: 12:00 – 17:00

 

6 Marzo 2020

 

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