di Luca Sorbo
“Mi sono chiesto, se estrapolando dal contesto originale ognuna delle foto scattate negli ultimi anni e trattandole come frammenti da riassemblare in un contesto completamente diverso, con lo stesso procedimento, potessi ricostruire le visioni confuse della vita di tutti i giorni”
“Ho cercato di smantellare la fotografia, ma ho finito per smantellare me stesso”
Queste frasi ci introducono nel mondo visionario di Daido Moryama, tra i più innovativi ed originali fotografi della seconda metà del Novecento.
La ventesima edizione di FOTOGRAFIA EUROPEA ha dedicato all’autore giapponese una retrospettiva di grande interesse. La mostra è stata organizzata dall’Instituto Moreira Salles e curata da Thyago Nogueira.
Il curatore, che ho avuto il piacere di incontrare nelle giornate inaugurali del Festival, mi ha raccontato che la sua ricerca è durata tre anni e che è stato un mese in Giappone per visionare tutto l’archivio e per cercare di ricostruire la lunga carriera di Moryama con un punto di vista originale. Mi dice che ha dato una grande importanza alle pubblicazioni, più che alle mostre, perché nel percorso visivo del nostro autore i libri e le riviste sono stati decisivi per sperimentare e per far conoscere le sue ricerche. Mi dice anche che non ha avuto alcun condizionamento nelle sue scelte.
La mostra è una vera e propria esperienza immersiva che ci consente di ripercorrere in dettaglio tutti gli aspetti del percorso umano ed artistico del grande fotografo giapponese.
Il fotografare di Moryama non è il risultato di una costruzione concettuale, ma è la traccia del suo immergersi nella vita quotidiana “come un cane randagio”, senza tenere conto di quelle che erano le convenzioni tecniche ed espressive della fotografia.
ARE-BURE-BOKE, sgranato, sovraesposto e sfocato sono i tre aggettivi con cui sintetizza la sua nuova grammatica visiva. Giustifica il suo fotografare affermando che nella nostra visione solo poche immagini sono nitide, mentre la maggior parte sono sfocate e poco definite. Il suo, quindi, vuole essere un realismo senza i filtri della ragione, una sorta di flusso di coscienza che trova la sua motivazione profonda nel reale funzionamento della vista. La sua è un’indagine senza pregiudizi sulla realtà per cercare attraverso il visibile, nella sua forma più estrema ed insolita, tracce dell’invisibile. La sua ribellione non è un esercizio di volontà, ma una profonda necessità interiore.
Nato nel 1938 a Ikeda nella prefettura di Osaka, ha vissuto il dramma della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki e l’umiliazione della sconfitta militare. Ha studiato prima come grafico, poi dopo l’incontro con Takeji Iwamiya, si dedica alla fotografia. Nel 1961 si trasferisce a Tokio per collaborare con la rivista VIVO e diventa assistente di Eikoh Hosoe, tra i maestri della fotografia.
L’occupazione americana dopo la Seconda Guerra Mondiale ha prodotto ferite profonde nella società giapponese. Una generazione di giovani autori avverte il bisogno di porsi con un diverso atteggiamento nei confronti della realtà per trovare nuove possibilità e forse nuovi equilibri. Influenzato dal libro del 1947 Leggermente fuori fuoco di Robert Capa, dal libro su New York di William Klein e dal libro On the road di Jack Kerouac, metabolizza la necessità di una vita che non si basi più sulle vecchie tradizioni, ma che sia da scoprire in ogni istante del quotidiano.
Il suo primo fotolibro è del 1968 e si intitola Japan. A Photo Theater.
Nel 1969 partecipa al secondo numero della rivista PROVOKE con il lavoro Eros in cui ci rende partecipi di una sua notte di sesso in una stanza d’albergo.
Un vero e proprio spartiacque nel suo percorso è la pubblicazione nel 1972 di Farewell photography in cui è presente una sua intervista a Takuma Nakashira in cui esplicita la sua volontà di smantellare tutte le convenzioni tradizionali del medium fotografico.
Nel 1982 con il libro Light and Shadow prova ad analizzare il linguaggio fotografico nella sua essenza, trovando i suoi fondamenti nella luce, nell’ombra e nella grana.
A questa analisi critica artistica si aggiunge anche una crisi personale che lo porta ad indagare la sua identità. Da questo travaglio interiore nasce Memorie di un cane in cui recupera i ricordi della sua infanzia. La solitudine vissuta da bambino, la morte del fratello gemello a solo un anno di vita e la curiosità per il sacro ed il mondo dell’arte sono alcune delle radici del suo fotografare. Moryama sviluppò il concetto di Furusato che letteralmente significa vecchio villaggio, ma che nella cultura giapponese è piuttosto un luogo mentale in cui rifugiarsi per trovare una sicurezza interiore. La memoria lascia tracce sulle cellule del suo corpo cosi come la luce lascia tracce sui grani d’argento. Nei suoi scritti, sempre molto interessanti, evoca anche Marcel Proust per spiegare la sua ricerca di stabilire una relazione tra la memoria individuale ed il contesto sociale. La fotografia diventa, quindi, più che una possibilità di rappresentare il reale una nuova memoria dove si sedimentano tutte le tensioni dell’autore.
Rivelatore di questa sua ricerca è il libro Labyrinth del 2012 dove pubblica molti dei provini a contatto realizzati dagli anni Sessanta.
Dopo questo periodo di autoanalisi sia personale che tecnica, torna a fotografare la città ed in particolare il quartiere di Shinjuku. Camminare e fotografare divennero bisogni fondamentali come respirare e mangiare. Nelle sue immagini le vetrine, i pedoni, le pubblicità diventano paesaggi dell’anima che vivono nei forti contrasti della luce e dell’ombra e che si materializzano nella grana della pellicola.
Nel 2017 la sua ricerca sulle città trova una nuova dimensione nel libro Pretty Woman. Questa volta utilizza il colore esaltando le tinte scintillanti, i forti contrasti e la saturazione.
Molto interessante è anche la rivista Record che Moryama ha pubblicato fin dal 1970 e che è ancora attiva. È un viaggio nelle città del mondo, nelle esperienze che vive e delle persone che incontra. Una sorta di diario privato dove può sperimentare tutte le sue urgenze.
Le sue immagini in bianco e nero hanno avuto una straordinaria influenza sulla fotografia internazionale e si contrappongono alla grande tradizione francese ed americana, anche se ad una più approfondita analisi ne rappresentano solo uno sguardo differente, ma non una negazione. Sono solo una risposta diversa alle medesime domande.
In mostra sono esposti tutti i suoi libri e molti sono consultabili.
Molto interessante il catalogo, sempre a cura Thyago Nogueira, in cui riportate tutte le pubblicazioni ed una selezione delle immagini più famose, oltre ad una ricostruzione molto dettagliata del percorso di Daido Moryama.
Tutte le info sono reperibili sul sito www.fotografiaeuropea.it