di Luca Sorbo
Fausto Giaccone è un protagonista della fotografia italiana che ha sempre interpretato la professione come impegno culturale e civile.
Siciliano di madre toscana, si è formato a Palermo nella complessa realtà del capoluogo siciliano. La sua fotografia si nutre di una forte carica umana capace di intrecciarsi alle problematiche sociali.
L’interesse per i cambiamenti sociali e la passione suscitata dall’incontro con il Portogallo e la sua gente, gli consente di realizzare nel 1975 un reportage storico rimasto unico, che ha avuto numerosi riconoscimenti. Ha viaggiato in tutti i continenti per la produzione di reportage a carattere socio-politico e culturale.
L’amore per i libri e per l’America Latina, la Colombia in particolare, lo porta sulle tracce di Gabriel García Márquez, e realizza il libro Macondo. Il mondo di Gabriel García Márquez.
Come è nato il tuo interesse per la fotografia?
Ero a Roma, dove mi ero trasferito a metà anni ’60 per terminare gli studi di architettura. Poi…è scoppiato il ’68! In realtà seguivo già da qualche anno i movimenti politici e giovanili che protestavano contro la guerra nordamericana in Vietnam. Nel fotografare queste manifestazioni andavo trovando la mia strada, la mia passione per documentare la “storia”. Mi aveva colpito il lavoro che Bruce Davidson, della Magnum, andava facendo nel sud degli Stati Uniti in quegli stessi anni, per raccontare la lotta per i diritti civili.
E così mi ritrovai, quel 1° marzo del ’68, anche in mezzo agli scontri di Valle Giulia, che diventarono poi il simbolo di quella stagione politica.
Da Piazza di Spagna si era formato un corteo con l’intenzione di riprendere l’occupazione della facoltà di Architettura che era stata sgomberata ed era presidiata dalla polizia. Non ero mai stato in mezzo a degli scontri e non ero neanche bene attrezzato, ma aiutandomi anche con un teleobiettivo avuto in prestito, riuscii a fare una serie di immagini interessanti. Alla fine la polizia trattenne tutti quelli che riusciva a bloccare e mi ritrovai allineato insieme ad altri studenti fermati in un’aula della facoltà, perché sprovvisto di tessera stampa. Mi avevano anche sequestrato le macchine fotografiche, ma i rullini li avevo già nascosti nelle tasche, e riuscii a consegnarli ad un parlamentare del PSIUP venuto a rendersi conto delle condizioni dei fermati. Questi scatti hanno segnato l’inizio del mio percorso, mi hanno fatto intravedere, un po’ ingenuamente, ma con un certo entusiasmo giovanile, cosa avrei voluto fare nella vita. Poi non è andata proprio sempre così, ma il mio lavoro su quell’anno, insieme a quelli di altri colleghi già più esperti di me, ricordo a Roma Adriano Mordenti, Massimo Vergari, Vezio Sabatini, Romano Gentile, Luciano Paternò, a Milano Uliano Lucas e Massimo Vitali, hanno testimoniato quei tempi. Certamente seguivo gli avvenimenti con un forte senso di partecipazione emotiva. Mi rendevo conto, in quei mesi, che anche io avevo un ruolo nel racconto della storia del mio Paese.
Ad ogni anniversario decennale mi chiedono ancora quegli scatti. Perfino la Beinecke Library della Yale University è arrivata ad interessarsi del mio lavoro partendo proprio dalla ricerca dei miei scatti della cosiddetta “battaglia di Valle Giulia”.
Con quali giornali collaboravi? Come ti sei confrontato con il mondo editoriale?
A Roma non c’erano molte testate giornalistiche commerciali, oltre ai quotidiani e oltre al settimanale L’Espresso. Inevitabilmente, ma anche perché mi sentivo politicamente vicino a loro, lavoravo soprattutto per le riviste legate ai partiti di sinistra e ai sindacati, come Noi Donne, Rinascita, Vie Nuove, L’Astrolabio, Mondo Nuovo. Lavorare con questi giornali mi ha dato l’opportunità di conoscere delle persone di valore, di viaggiare e conoscere l’Italia ed in particolare il Sud. Conoscevo personalmente i fotoreporter della generazione precedente, i fratelli Sansone, Caio Mario Garrubba e Calogero Cascio, Franco Pinna e Mario Dondero. Nei primi anni ’70, insieme a dei colleghi e amici, Paola Agosti, Tano D’Amico, Dario Bellini, Sandro Becchetti e Romano Martinis, mettemmo su una agenzia ispirata ai principi di una cooperativa, e ci scambiavamo i servizi, per la distribuzione, con un’agenzia, milanese, la DFP di Aldo Bonasia, bravissimo fotoreporter. Nei primi anni ’80 mi sono trasferito a Milano soprattutto per confrontarmi con le varie case editrici con le quali fino ad allora avevo avuto qualche sporadica collaborazione ma solo a distanza. In ogni caso, dopo pochi anni di lavoro continuo con parecchie testate, Panorama, Epoca, femminili, mensili di viaggio, di economia, mi sono reso conto che la qualità del lavoro che avevo fatto a Roma di mia iniziativa senza nessuna certezza e protezione non aveva avuto niente a che fare con l’esperienza che stavo facendo a Milano. In un certo senso c’era voluta l’esperienza milanese per farmi capire l’importanza della mia formazione da autodidatta siculo-romano. Certo, Milano mi ha dato una grande lezione di professionalità, ma capivo però che stavo tradendo la mia vocazione. Nella quale credevo sempre.
Come è nato il tuo reportage sul Portogallo?
Il 25 aprile del 1974, il giorno dell’esplosione della “rivoluzione dei garofani”, io ero impegnato con un altro lavoro, non ricordo più dove. Quando, nell’estate dell’anno successivo, la situazione portoghese si è scaldata al punto che quel periodo viene ricordato come il “Verão Quente”, l’estate calda, ho cercato di non perdere questa seconda occasione. A Lisbona la situazione era caotica ma estremamente interessante. Con giornalisti e fotogiornalisti di tutto il mondo ero sempre in strada a seguire cortei o grandi meeting politici. Dopo qualche giorno di lavoro e di riflessioni, decido che devo riuscire a raccontare la fase che sta vivendo quella rivoluzione in un modo diverso, più personale. Ero lì in totale libertà, nessuno aspettava i miei rulli prima della chiusura dei giornali…E decisi di lasciare la meravigliosa Lisbona, febbricitante di energia rivoluzionaria, per interessarmi della situazione nelle campagne, nel sud, in Alentejo, dove, grazie alla legge della Reforma Agraria promulgata qualche mese prima, i braccianti stavano occupando le terre abbandonate dai latifondisti organizzandosi in cooperative agricole. Fu un’esperienza unica, ed anche il risultato fu molto positivo.
Quest’anno ho fatto diverse mostre in Italia e in Portogallo su questo tema, ma l’esperienza più emozionante è stata quando, alla presentazione a Lisbona del catalogo della mostra voluta dal ministero della Cultura e dall’ Ambasciata Italiana, ho visto avvicinarsi un signore anziano, più o meno della mia età, che mi ha chiesto di dedicargli una copia del libro. Era Fernando Silva Oliveira Baptista, l’ex-ministro del Ministero dell’Agricoltura che nel luglio del 1975 aveva promulgato la legge della Reforma Agraria.
Ma già prima avevi pubblicato un altro libro sul Portogallo del 1975, il libro Una storia portoghese. Come era nato?
Il primo libro sulla mia esperienza in Portogallo nel 1975 avvenne da una parte pensando a quale progetto personale dedicarmi per reagire alla routine del lavoro milanese, e dall’altra dall’incontro fortuito con lo scrittore Antonio Tabucchi a cui mostrai le foto che avevo realizzato nel 1975. Spinto anche dalla sua reazione entusiasta tornai, nel 1986, in quegli stessi luoghi. Da questo viaggio nacque il libro Una storia portoghese edito nel 1987 dalla galleria Randazzo Focus di Palermo. Dopo questa esperienza ho preferito priviligiare, quando possibile, il lavoro indipendente in collaborazione con giornalisti con cui condividevo un approccio simile alla professione. Progettavamo di lavorare per un periodo abbastanza lungo in una certa parte del mondo e proponevamo i nostri reportage a testate di tipo diverso. Molti reportage li realizzammo in America Latina.
Come è nata la tua ricerca visiva su Macondo?
Nei primi anni 2000 il mondo dell’editoria era ormai decisamente in crisi. A quel punto decisi di fare qualcosa che davvero mi interessasse, senza tenere in alcun conto il lato economico. Avevo fatto il mio primo viaggio in Colombia nel 1987 inviato da Epoca, per una serie di reportage in America Latina. Successivamente c’ero ritornato più volte per diversi lavori. Tra il 2006 e il 2010 decido di fermarmi più a lungo per cercare di realizzare un libro che racconti il Paese, tenendo come filo conduttore il lavoro e la vita di G. García Márquez. Avevo già letto tutti i suoi libri e li ho riletti, in spagnolo, attraversando i luoghi legati alla sua vita e alle sue opere.
Ho preferito lavorare con una medio formato solo con un’ottica normale, per cambiare la prospettiva e la distanza, io che ero abituato a usare una 35mm, e in bianco e nero per trovare l’essenzialità dei luoghi, quasi fuori dal tempo. Per me sono stati importanti, soprattutto a partire da questo libro, il confronto e l’amicizia con Giovanni Chiaromonte che apprezzava la mia ricerca visiva e ha poi scritto il testo critico per il libro edito nel 2013 dalla casa editrice Postcart di Roma.
Gerald Martin, il più importante biografo di Márquez, scrive nella sua introduzione: “Ho passato quasi vent’anni a fare ricerche sulla vita e le opere di Gabriel García Márquez, uno dei più grandi autori della letteratura mondiale. Ricerche non solo nelle biblioteche e negli archivi, ma anche lungo le strade, i fiumi e le coste della Colombia, prendendo appunti ovunque mi trovassi. Negli stessi anni, in modo del tutto indipendente, un altro europeo, Fausto Giaccone, lavorava a creare un equivalente visivo di queste esperienze, anche lui lungo le strade, i fiumi e le coste colombiane, scattando fotografie ovunque andasse. Ed eccole a voi in questo bellissimo libro”.
Quali altre esperienze ricordi con piacere?
Ce ne sono tantissime che potrei raccontare, ma preferisco parlare di una risalente a una dozzina di anni fa, perché mi ha portato in un territorio a me poco familiare, la laguna veneta, e anche alla ricerca di un linguaggio lontano dal fotogiornalismo, quindi per me più stimolante. Ho preso parte ad una committenza pubblica, durata una dozzina di anni con diversi autori, da parte del Comune di Cavallino Treporti .
Il libro Volti di Cavallino Treporti è stato pubblicato nel 2013 dalla Edifir di Firenze.
Ricordo anche la pubblicazione nel 2018 di Gino De Dominicis, Lo Zodiaco edito da Nero edizioni, sulla famosa mostra performativa dell’artista nel 1970 nella galleria L’attico di Roma, perché ha fato emergere dal mio archivio materiali frammentari che altrimenti sarebbero rimasti sconosciuti.
Naturalmente il libro attualmente per me più importante è Portugal 1975, catalogo della mostra a Lisbona di quest’anno, dove ho potuto pubblicare più ampiamente il mio lavoro del 1975.
Come è organizzato il tuo archivio?
Il mio archivio è composto di negativi bianco e nero e diapositive colore 35mm. Dal 2004 ho iniziato a lavorare su committenza in digitale ma i miei ultimi due libri, Macondo e Volti di Cavallino Treporti, li ho realizzati tra il 2006 e il 2012 entrambi con negativo medio formato, in bianco e nero e a colori. Una buona parte dei negativi e delle diapositive è stata già scansionata. Il bianco e nero è rimasto protagonista fino ai primi anni Ottanta, successivamente veniva richiesto solo il colore. Per me il bianco e nero non è stato mai un dogma, ho anche amato molto il colore.
Come ti approcci al soggetto da fotografare?
Cerco, anzi cercavo, di non essere invadente e di stabilire un rapporto di fiducia con le persone che incontravo. Tutto il mio lavoro sul Portogallo è nato così, da una passione civile, dal desiderio di raccontare nel modo più partecipato gli avvenimenti a cui stavo assistendo, ma non avrebbe avuto il risultato che ha avuto se non mi fossi sentito accolto come lo sono stato dai protagonisti di quegli avvenimenti. Oggi ho ancora rapporti con alcune persone conosciute 50 anni fa, o con loro parenti.
Che Cos’è per te oggi la fotografia e come vedi il futuro del fotogiornalismo?
Oggi per me la fotografia rimane il mio interesse principale, ma sto facendo poche fotografie, mi interessa più studiare la fotografia, del passato e del presente. E non parlo solo di tematiche sociali, i miei interessi si sono allargati ad altri aspetti della fotografia.
Il futuro del fotogiornalismo è sotto i nostri occhi, perfino un’agenzia come la Magnum, a parte i lavori commerciali, penso che viva più di workshop che di vere produzioni fotogiornalistiche. Le immagini che arrivano oggi da Gaza le vediamo solo attraverso gli smartphone dei residenti o di eroici reporter locali a costo della vita. A nessuno che venga dall’esterno è consentito di testimoniare. In ogni caso le immagini pubblicate dai giornali sono sempre più spesso le stesse su tutte le testate, prodotte dalle grandi agenzie internazionali a cui le testate sono abbonate. Non si investe più niente tranne in rari casi. La digitalizzazione ha tolto peso e pubblicità alla stampa cartacea. Eppure mai come ora si sente la passione per la fotografia tra i giovani. Ma difficilmente questa passione riesce a diventare un mestiere. Restano i premi, locali o internazionali, i vari festival, più o meno importanti.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Le mie energie sono concentrate sul lavoro d’archivio. Mi interessa più scoprire miei materiali del passato a me stesso quasi sconosciuti, dimenticati. Pensare a farne dei libri e ordinare nella maniera migliore i miei negativi. Naturalmente sperando che un giorno un’istituzione sia interessata ad acquisirlo per non disperdere quello che indubbiamente, come tanti altri archivi, rappresenta o dovrebbe rappresentare un patrimonio storico del nostro Paese.